domenica 6 dicembre 2015

" Per tutto l'oro del mondo " di Massimo Carlotto, ovvero di come non tutto quello che luccica è oro.






Il nuovo romanzo di Massimo Carlotto ha come tema le rapine nelle ville. Crimini spesso efferati, che non sono più prerogativa del ricco Nordest, o del Nord, ma ormai di tutta la penisola. Protagonista la solita banda di amici: Max la Memoria, alla ricerca della dieta perfetta; Beniamino Rossini, contrabbandiere e rapinatore dal cuore spezzato, e, naturalmente, l’Alligatore, Marco Buratti. L’ultimo eroe romantico, senza armi e senza paura.

L’ennesima avventura del trio di soci parte però in modo anomalo: l’Alligatore rifiuta l’ingaggio da una banda di ladri di gioielli, per scoprire chi ha ucciso uno di loro. Non vuole, Marco Buratti, che si arrivi a una carneficina per punire i colpevoli, anche perché di innocenti in questa vicenda non ce ne sono. A parte la governante Luigina, buona, ingenua, uccisa perché al posto sbagliato nel momento sbagliato, e il suo bambino Sergio, il cui padre si era defilato appena era nato. 

Così l’Alligatore decide che, se c’è qualcuno che ha diritto a una vendetta e a un risarcimento, quello è il piccolo Sergio. Da questa decisione il trio di soci si trova invischiato in una serie di eventi e svelamenti che legano tra loro personaggi estremamente eterogenei: ladri, ricettatori, vittime di rapine, politici, prostitute part-time. Persone spesso al di sopra di ogni sospetto. Perché se si è disposti a qualsiasi crudeltà “per tutto l’oro del mondo”, è anche vero che non è tutto oro quello che luccica.

Tocca all’Alligatore sbrogliare la matassa, e mentre lo fa trova spazio, nel suo cuore fuorilegge, anche per Cora. Cantante di jazz, sensuale, con una doppia vita, che “può amare solo omettendo la verità”, poiché il marito l’aveva incaricato di pedinarla.

La fine è di quelle agrodolci, con tre uomini solitari che passano un’estate a osservare lo sbocciare di un ragazzino che scopre la vita.

Se c’è un difetto nei romanzi dell’Alligatore è che, pur centellinando la lettura, finiscono troppo presto. In attesa di leggere cosa accadrà ai nostri tre “eroi”, non ci resta che sciogliere la malinconia, quella che viene a noi del nord, seguendo l’esempio dell’Alligatore. Per me, ora, Amy Winehouse e grappa di prosecco.


Il libro è uscito nel novembre 2015 per le Edizioni e/o ed è disponibile sia in cartaceo sia in ebook vedi qui





lunedì 9 novembre 2015

“Suburra", ovvero di come Giacomino Leopardi e una tossica hanno salvato Roma dal diluvio universale.





Ho lasciato passare parecchi giorni dopo la visione del film, prima di scriverne, perché sono uscita dalla sala del cinema piuttosto irritata. La regia di Sollima e, soprattutto, la sceneggiatura di Rulli e Petraglia da un libro di De Cataldo e Bonini, mi parevano ottime garanzie. Errore.
Ci sono in effetti due o tre cose nel film che mi sono piaciute, ma non posso raccontarle ora, altrimenti non arrivereste fino in fondo al post. Partiamo quindi dai difetti, almeno per la cinefila puntigliosa, che andrò a dividere in due categorie, inverosimiglianze e stereotipi.

INVEROSIMIGLIANZE.
1. La scena dell’agguato al piccolo boss di Ostia, Numero 8. Salta agli occhi a tutti gli spettatori di Roma, e dintorni, che la sequenza è stata girata all’interno del Centro Commerciale Porta di Roma. Ma quando vediamo che Numero 8 prende il pizzo dal proprietario del supermercato, è evidente che si tratta di un esercizio commerciale tipo discount: lo notiamo dagli articoli che guarda Viola, la fidanzata di Numero 8. A Porta di Roma non c’è nessun discount. Puntigliosità? Passiamo oltre. Vi pare logico che un boss o futuro boss che controlla la zona di Ostia, vada a chiedere il pizzo in un negozio che sta a Roma Nord, dall'altra parte della capitale? Vabbè, ma gli spettatori di Vigevano o di Canicattì non se ne accorgeranno mai. Come nessuno potrà eccepire sul resto della sequenza, con criminali che sparano all’impazzata all’interno del supermercato, colpendo anche ignari avventori. Segue la fuga di Numero 8 e fidanzata attraverso due piani di scale mobili, al termine delle quali trovano ad attenderli una macchina di loro complici. A voi è mai capitato di non ritrovare (subito) la vostra auto parcheggiata in un centro commerciale? Questi delinquenti sono, invece, molto fortunati: scala mobile, uscita e piano azzeccati, salvataggio telecomandato. Ultima cosa: la sequenza di un delinquente morente (o quasi) sdraiato su una scala mobile, lasciamola per cortesia a Brian de Palma e al suo “Carlito’s way” (questa notazione è del tutto personale).

2. Viola, pur essendo una tossica che passa le sue giornate a farsi e a dormire, si fa portare da uno scagnozzo del fidanzato in un centro estetico, per “farsi la ceretta”. Entra e, pistola in mano, fa strage di gran parte della banda di Anacleti. Insomma lei sa esattamente dove vanno a “farsi i massaggi” i componenti della banda rivale e a che ora… O gli uomini di Anacleti sono dei perfetti imbecilli, o Viola non è una “fattona” come vogliono farci credere.

3. Il Samurai è il superboss che non si sporca mai le mani, non sono mai riusciti a mandarlo in carcere, insomma abbiamo capito a quale personaggio della cronaca nera romana si ispiri il personaggio. Eppure quando è costretto a compiere la vendetta per conto degli Anacleti, va lui stesso a cercare Viola a Ostia, e uccide tutta la banda di Numero 8, lui compreso. (Viola no, è troppo furba…).

4. Un politico come Malgradi, che è abituato a “nottate di sesso e droga”, quando si ritrova nel letto d’albergo una minorenne morta per overdose, scappa e lascia che a risolvere il casino sia l’altra prostituta. Ricattato, va a chiedere aiuto a un suo compagno di partito. Oltre a essere depravato questo Malgradi è anche piuttosto sprovveduto, per non dire di più. NdA per favore, ridatemi Favino vestito e con la barba: quella scena in cui è seduto sul letto, nudo, con le cosce in primo piano, non è che fosse molto “attizzante”. Per non parlare di quell’assurda inquadratura in cui, sempre nudo, piscia dal balcone sotto la pioggia.

Potrei aggiungere altri particolari che trovo abbastanza improbabili nella sceneggiatura del film, e che qualsiasi appassionato di gialli o noir (libri o film che siano) avrà rilevato, penso, come me. Ma passiamo ora agli

STEREOTIPI.
1. Quando il Samurai incontra un suo vecchio compagno di banda, appena uscito dal carcere dopo anni, e gli dice che non avrà nessuna ricompensa per il suo silenzio, subito si pensa:“Questo disgraziato, tempo trenta secondi muore,” e infatti viene travolto da un’auto appena esce dal locale.

2. Il depravato Favino, fra un’orgia e l’altra, trova anche il tempo di tornare a casa e rimboccare le coperte ai figli che dormono, ignari. Altro che Mary Poppins.

3. Il terribile Samurai, senza pietà, che va in moto fino al Ghetto, sotto la pioggia, per comprare la torta per la mamma. Cuore tenero.

3. Alla fine del film tutti o quasi muoiono, o escono sconfitti. Tranne due: Sebastiano e Viola. Sebastiano, un Elio Germano che organizza feste per Vip nella sua discoteca, è come un novello Giacomo Leopardi ma senza poesia né gobba. E’ un ragazzo pavido, menefreghista anche nei confronti del padre (bello, questo sì, il cameo di Antonello Fassari), che arriva a tradire e vendere anche la sua unica amica, per salvarsi la pelle. Ma alla fine riesce a massacrare di botte Manfredi, il crudelissimo capo della banda degli zingari, e lo trascina, ancora vivo, nella gabbia del cane ferocissimo che lo sbrana. Il tutto sempre sotto la pioggia del diluvio universale. Dove sono finiti, nel frattempo, i circa cinquanta famigliari che vivevano sotto lo stesso tetto di Manfredi? Mistero. Bella evoluzione, comunque, per questo personaggio. E che dire di Viola, la fidanzata di Numero 8. Incapace persino di rimanere sveglia fra un buco e l’altro. Nonostante questo è l’unica della banda che si salva dalla furia omicida del Samurai. Così dopo la strage si organizza, pedina, da sola, il Samurai e lo finisce fuori dalla casa della madre. Sempre sotto la pioggia. Altro che Nikita.

E ora quello che mi è piaciuto. No del Vaticano, del papa che si dimette ecc, pietà, non ne voglio parlare. Fra tutti l’interpretazione che più mi ha colpita è stata quella di Alessandro Borghi, un Numero 8 sanguigno e convincente, nella sua eterna lotta per essere degno erede di suo padre. Pierfrancesco Favino è bravo, come sempre, ma il personaggio che gli è stato affidato, con tutte le riserve di cui sopra, non lo trovo adatto a lui. Claudio Amendola se la cava ma, insomma, lo vedo poco come riflesso del vero Carminati. Bravissima invece Greta Scarano nel ruolo di Viola, che avevo amato molto anche  qui   Bella la fotografia livida di Paolo Carnera e la colonna sonora di tutto il film.

Qualcuno potrebbe dirmi: ma tutte queste righe per elencare i difetti di un film che non ti è piaciuto? Non era meglio lasciar perdere e non scriverne? (come faccio spesso per i film che non mi convincono). La risposta, in questo caso, è no. Perché Stefano Sollima aveva in mano un ottimo soggetto, la colpa è forse anche degli sceneggiatori, e questo mi stupisce perché sono fra i migliori che abbiamo in Italia. Però quando mi trovo di fronte a un’occasione mancata per il cinema italiano, mi rimane il dispiacere. Dev’essere la troppa passione. Aspettiamo Sollima al prossimo appuntamento.





mercoledì 14 ottobre 2015

"Il lungo sguardo" di Elizabeth Jane Howard, ovvero niente amore siamo inglesi.






Confesso che la curiosità verso questa scrittrice mi è nata dalla lettura di alcuni articoli, su giornali italiani e inglesi. Elizabeth Jane Howard nacque dal matrimonio fra un ricco commerciante di legnami inglese, incapace a gestire la sua attività, e una ballerina russa. La sua vita è attraversata da rapporti amorosi fallimentari, che comprendono molti amanti, una figlia quasi dimenticata a sé stessa, e tre matrimoni. L’ultimo dei quali, il più duraturo, con il già affermato scrittore Sir Kingsley Amis, padre di quel Martin che diverrà a sua volta scrittore.

Racconto queste brevi note biografiche, perché mi paiono importanti per capire il romanzo, ma anche le ragioni per le quali il suo talento letterario sia stato a volte discontinuo, ma ancor più spesso disconosciuto dai suoi conterranei. Grazie a Fazi Editore, finalmente possiamo leggere le sue opere anche in Italia.

Ho voluto cominciare a conoscere la Howard dalla lettura de “Il lungo sguardo”, pubblicato l’anno scorso, anziché dal primo volume de “La saga dei Cazalet” appena uscito. Pensavo, credo a ragione, che in questo romanzo siano racchiuse una buona parte della sua personalità e della sua filosofia di vita.

Il lungo sguardo” è il racconto, intessuto di riflessioni che a tratti diventano verità assolute, di un matrimonio della borghesia inglese. Raccontato però a ritroso, quindi non cronologicamente. La prima parte del romanzo inizia, come all’aprirsi del sipario a teatro, sui preparativi per un fidanzamento nel 1950: quello di Julian, il figlio della protagonista Mrs. Fleming. La fredda meticolosità con la quale sono descritte le relazioni fra la protagonista, il figlio e la figlia Deidre, e ancor di più fra la donna e il marito, sono un autentico capolavoro di sarcasmo e rassegnazione insieme.

La lettrice attenta si domanda subito come possa una donna essere così insensibile, specie nel giorno del fidanzamento del figlio (nella realtà, tutto ciò è possibilissimo, parlo per esperienza diretta). E la risposta a questa domanda diventa plausibile, fino a essere ovvia se non obbligata, quando arriviamo a leggere la quinta e ultima parte del romanzo. Ambientata nel 1926, ecco di fronte a noi una Mrs. Fleming che è tornata a essere Antonia, un’adolescente ingenua, inconsapevole della propria bellezza. Il padre, studioso, non si accorge quasi della sua presenza. La madre, quando non è impegnata a organizzare feste e partite di tennis nella villa di campagna, passa il tempo a mortificare la sua unica figlia.

Non è difficile immaginare che i due personaggi siano ispirati ai genitori della scrittrice. Se la non– presenza del padre della Howard è forse uno dei motivi della sua vita sentimentale tormentata, così l’anaffettività della madre, che le preferisce i figli maschi, è la causa della continua insoddisfazione dell’autrice verso le sue opere letterarie. Una ricerca dell’affetto e della stima dei genitori che non andrà a buon fine.

Ora, da quanto ho scritto fin qui, potrebbe sembrare un romanzo che descrive personaggi, molto british e molto snob, che passano le giornate cercando di divertirsi fra tennis, cavalcate, partite a carte, feste e amori clandestini. “Il lungo sguardo” è molto di più: quasi tutti i personaggi, sotto l’apparenza flemmatica e/o austera, covano passioni, che non sanno o non vogliono esplicitare. Elizabeth J. Howard qui è maestra nel descrivere la brace che si cela sotto la cenere, come solo gli scrittori (e le scrittrici) inglesi sanno fare.

Guardate come racconta il primo innamoramento della giovane Antonia: “Eccolo, dunque: il punto di non ritorno. L’istante estremo in cui una figura distante che viene verso di noi diventa riconoscibile, ci vede e viene vista; il punto da cui non si recede e bisogna per forza incontrarsi, soffrire o godere o manifestare la reciproca indifferenza. Lui era venuto lì per incontrarla e, nell’istante in cui si erano separati dalla folla, l’incontro era avvenuto.”

Uno splendido romanzo, che si può leggere d’un fiato come anche centellinando dialoghi, sguardi, pensieri inespressi. Lascia un retrogusto malinconico e amaro, come la vita vera. Consigliato a tutti, in particolare a giovani donne ancora indecise sul loro futuro, a donne (e uomini) che sono sposati o lo sono stati. Alle giovani coppie di fidanzati o ai novelli sposi…. meglio di no, se non come vademecum sugli errori da evitare.

Grazie davvero a Fazi Editore per questa bella scoperta, a Manuela Francescon per l’ottima traduzione. E ora avanti con  “Gli anni della leggerezza” primo tomo de “La saga dei Cazalet”.






venerdì 11 settembre 2015

"Nel mondo di mezzo. Il romanzo di mafia capitale" di Massimo Lugli. Da leggere per chi ama Roma. E per chi la detesta.






Tutti abbiamo letto sui giornali, o almeno visto in Tv, le notizie su Mafia Capitale. Perché allora leggere “Nel Mondo di Mezzo - Il romanzo di Mafia Capitale”? Massimo Lugli è un cronista di nera della “Repubblica”,  ma anche un autore di romanzi noir, che amo leggere in entrambe le “versioni”. In quest’ultimo libro il suo alter ego, il solito Marco Corvino, riesce a penetrare nel cuore “nero” di Roma, con il rigore di chi è giornalista da una vita e, nello stesso tempo, con l’abilità di chi sa creare personaggi fittizi assai verosimili.

Così verosimili che la lettrice attenta si chiede se, ad esempio, anche Sofia Di Gianmarco, la negoziante ricattata dai cravattari, o Raffaele Nardelli, il suo irascibile amante, siano persone in carne e ossa come l’assessore Quattordici, l’ex terrorista nero Carmine Del Marzo o la criminologa Rossella Bruzzi. Ma anche chi non fosse interessato alla cronaca politica e giudiziaria di Roma, leggerà comunque il romanzo d’un fiato. La suspense è sempre elevata dall’inizio alla fine, pure dove Corvino, a tratti, ci fa partecipi della dolorosa impossibilità, come giornalista, di essere utile alle vittime del crimine che incontra nel suo lavoro.

Un cronista crepuscolare che ogni giorno deve fare i conti con la paura del prepensionamento, le discussioni con la ex-moglie a causa del figlio adolescente, il carattere insopportabile del capo, al giornale, e della compagna, nel tempo libero. Un cronista acciaccato, malinconico, non certo il Carl Berstein di “Tutti gli uomini del presidente”. E proprio per questo motivo ci risulta simpatico, nella sua umanità piena di difetti, mentre lo guardiamo arrancare nella sua vecchia auto, litigando con il traffico caotico (colpa del sindaco ciclista!) e con il cellulare nuovo che non riesce a usare.

Insieme a lui entriamo nella ragnatela di politica -  mafia - delinquenza comune che sta soffocando Roma. Volete capire come e perché è nato l’affare del decennio sulla pelle degli immigrati? O non sapete, per fortuna, come funziona il meccanismo dello strozzinaggio? Massimo Lugli scrive e descrive con mestiere, dove serve attraverso scene efferate e crudeli, ma senza compiacimento. Sempre con l’ansia di raccontare seriamente ed efficacemente chi sono e come agiscono i “cattivi”. E con l’empatia necessaria a comprendere sia le vittime, sia chi, da vittima, a volte diventa piccolo carnefice.


Un libro da leggere per chi ama Roma. E anche per chi la detesta.




mercoledì 26 agosto 2015

“Ricordami così“ di Bret Anthony Johnston, il miglior romanzo che abbia letto quest’anno.






Lo so che siamo “solo” alla fine di agosto, ma “Ricordami così” di Bret Anthony Johnston è un romanzo talmente particolare e coinvolgente, con una scrittura così intensa e insieme priva di orpelli, che temo rimarrà fino a dicembre il romanzo più bello che io abbia letto quest’anno.

Se siete appassionati di serie Tv americane, il soggetto è molto sfruttato: Justin, un ragazzino di undici anni, scompare nel nulla in una cittadina costiera del Texas. L’autore è davvero abile nel descrivere, intimamente, come ciascuno dei componenti della sua famiglia, il padre Eric e la madre Laura, il fratello Griff e il nonno paterno Cecil, cerchi di sopravvivere a questa devastante tragedia. Ecco alcuni pensieri del padre, nel momento in cui saluta la sua amante dopo un fugace incontro: “Come sempre, quando era sul punto di accomiatarsi da lei, si sentiva sollevato e allo stesso tempo pieno di vergogna….Aveva la sensazione come di qualcosa che venisse cancellato, come se il tempo che trascorrevano insieme lo lasciasse rimpicciolito, lo riducesse a un nucleo essenziale da cui doveva partire per ricostruire se stesso.”

Come avrete capito da questo accenno, nessuno sconto per la famiglia Campbell, niente melensaggini o ritratti patetici: ognuno affonda in modo diverso, in un buco nero di angoscia, sensi di colpa, solitudine. Continuando a distribuire volantini con la faccia di Justin. Ma sentendo inconsciamente che Justin non c’è più, senza avere la forza di confessarlo l’uno all’altro.

All’improvviso, in un soffocante pomeriggio estivo, l’inaspettato miracolo: Justin viene ritrovato e restituito alla famiglia. Da questo punto si entra nel vero cuore della storia, attraverso quella porta che si chiude dietro la famiglia felicemente ricongiunta. Un “dopo” che nessun episodio di “Senza traccia “ o “Criminal minds” ha mai raccontato. Che cosa succederà ora alla famiglia Campbell?

Non era un compito facile quello di esprimere quali sentimenti ambigui e contrastanti scaturiscono nel nucleo famigliare. E poi c’è Justin. Dove è stato in questi quattro anni? Chi l’ha rapito e perché? Cosa ha dovuto subire in questo lunghissimo periodo, che l’ha trasformato da bambino quasi in un uomo, facendogli “saltare” l’adolescenza? Bret A.Johnston riesce benissimo nell’intento, senza alcun cedimento a curiosità voyeuristiche o a facili istinti giustizialisti. Perché il colpevole esiste e viene catturato, e ha, a sua volta, una famiglia.

E in questa cittadina dove si giustappongono spiagge da turisti e barche di pescatori, uomini che indossano e lucidano gli stivali anche d’estate e ragazzini che sfrecciano sugli skateboard, pesca di gamberetti e cura di delfini malati, anche la lettrice ipercritica si è lasciata avvolgere dalla suspense ben costruita e da una serie di dilemmi morali e/o filosofici che l’autore, correttamente, si guarda bene dall’esplicitare.

Ora viene il desiderio, essendo questo il primo romanzo di Johnston, di leggere anche la precedente raccolta di racconti “Corpus Christi”. E un “brava” anche a Federica Aceto, che ha tradotto ottimamente, senza alcuna sbavatura, il romanzo.



Il libro è uscito nel maggio 2015 per la Einaudi Stile Libero ed è disponibile in cartaceo vedi qui




giovedì 6 agosto 2015

"La ferocia" di Nicola Lagioia: luci e ombre nell'ultimo premio Strega.





Metto le mani avanti e inizio col dire che non è stato facile scrivere de " La ferocia ", a prescindere dal premio Strega, e infatti ho finito di leggerlo da vari giorni. 

Le difficoltà le ho incontrate già dalle prime dieci pagine: la descrizione minuziosa, quasi ossessiva di animali, in particolare di insetti, stava per farmi abbandonare la lettura. Ecco che Nicola Lagioia vuole creare analogie fra il mondo animale e il mondo umano che andremo a conoscere, ho pensato. Purtroppo ho iniziato " La ferocia " subito dopo aver letto i racconti di Sandro Bonvissuto: se avete letto quello che ho scritto nel post precedente, saprete che amo lo stile asciutto. Le frasi brevi. La riduzione al minimo delle descrizioni e degli aggettivi non necessari. Lo stile di scrittura di Nicola Lagioia è all'opposto: barocco, ridondante, quasi compiaciuto nel creare frasi complesse, costruite a volte come da sintassi della lingua tedesca. Quindi per me, all'inizio, una sofferenza non da poco leggere  " La ferocia "

Un esempio: per scrivere che una donna ha fra i 25 e i 35 anni, io scriverei più o meno quello che ho appena scritto. Nicola Lagioia descrive Clara così: (non sono la prima a citare questa frase): "Non era molto oltre la trentina, ma non poteva avere meno di venticinque anni, a causa dell'intangibile rilasciamento dei tessuti che trasforma la sveltezza di certe adolescenti in qualcosa di perfetto." Analizzando parola per parola la frase, cosa vorrà dire l'autore? Forse che dopo i 25 anni il tessuto delle donne, non più adolescenti, si rilassa e diventa perfetto? Ma una donna a quell'età ha lasciato l'adolescenza da parecchi anni. E perle così ne troverete disseminate nel romanzo. Per fortuna più la narrazione si fa serrata (non che diventi un vero noir), e più il linguaggio si "normalizza". Leggendo mi domandavo: ma Nicola Lagioia non insegnava scrittura creativa qualche anno fa? E insegnava a scrivere in questo modo? Se mi volete chiedere se ho mai letto qualche altra sua opera, vi rispondo sinceramente di no, e se il suo stile è sempre questo, non credo che ne leggerò altre. 

Ma allora perché sono arrivata fino alla fine? Ammetto la mia vulnerabilità: il personaggio di Clara, la 25-35enne, mi ha colpito, perché viene narrato dagli altri, non parla mai (e forse non capiamo davvero nulla di lei). Le storie di famiglie di provincia che arrivano al potere (di pezzenti arricchiti come si dice a Bari), mi affascinano: sono cresciuta nella provincia del profondo Nord, ma per metà ho radici baresi. Questo narrare concentrico e insieme ondivago verso il cuore della vicenda lo riconosco, dall'affabulare dei miei amici baresi di quando ero adolescente, e ci combatto con me stessa da anni. Per questo ho stretto i denti e sono andata avanti nella lettura. 

Mi piaceva questa famiglia Salvemini, a partire dal capostipite Vittorio, che si è fatto da sé, al figlio bastardo Michele, che finisce anche in manicomio (lo sapete che la Casa della Divina Provvidenza di cui tanto si parla, altro non è che l'ex manicomio di Bisceglie, una città nella città?). Poi il primogenito Ruggero, che rinnega l'impero del padre per diventare un oncologo famoso, salvo poi ritrovarsi nella "ragnatela" del padre. Una famiglia di anaffetivi, a partire dalla madre fino alla figlia più piccola, Gioia, due perfette s..... E Clara, più vittima che carnefice, in un turbinare di sesso, droga, affari, ricatti, dove forse qualcuno avrà letto l'eco di fatti di cronaca giudiziaria recenti (ma ormai persi dalla memoria collettiva) in quel di Bari. Io no. Io ho letto sola la storia di una famiglia di provincia, "perché la Puglia non è certo Bari", come dice un personaggio del romanzo. Certo di storie così ne sono state scritte tante altre, e usando uno stile più diretto e incisivo, da vero noir. Penso, ad esempio, al bellissimo "Nordest " di Massimo Carlotto e Marco Videtta, letto anni fa ma ancora vivido nella mia memoria. 

Ma Nicola Lagioia viene da Bari. Credo che una bella sforbiciata, o meglio, un lavoro di editing con la mannaia per eliminare cesellature e voli pindarici avrebbe giovato "assai" al romanzo. D'altra parte l'autore è anche editor di professione, e allora questo è il suo stile possa cambiare.

E chiedo scusa se questa recensione è involontariamente ambigua, ma dove la scrittura di Nicola Lagioia ha ferito, la trama ha affondato il coltello... 





lunedì 20 luglio 2015

" Dentro " di Sandro Bonvissuto ovvero della scrittura come esercizio di sottrazione.







E' uscita da qualche mese l'edizione economica Einaudi di " Dentro ", autore Sandro Bonvissuto. Perché scrivere di una raccolta di racconti, tre per la precisione, edita qualche anno fa? Il primo motivo è questi tre racconti mi hanno colpito positivamente; il secondo è che, se volessi scrivere un racconto o un romanzo, vorrei essere dotata dell'abilità sintetica (e sintattica) dell'autore; il terzo motivo è che adesso la raccolta è in edizione economica: niente più scuse per rinviare l'acquisto...

Partiamo dai temi dei tre racconti: " Il giardino delle arance amare " è il resoconto verosimile di un uomo che viene incarcerato per la prima, e forse unica, volta. Non sappiamo per quale crimine, né se sia colpevole o innocente. E nemmeno ci importa. Ma viviamo lo smarrimento di un uomo che viene privato della sua libertà, della dignità e del significato stesso della sua vita. Un racconto che costringe a guardarsi dentro, anche se non hai mai vissuto l'esperienza del carcere. I muri paiono davvero alzarsi davanti a chi legge e la puzza terribile della latrina dentro la cella è quasi avvertibile. Così come il lento scorrere del tempo che non passa mai, bene prezioso, spesso sottovalutato, per chi è fuori, angoscia intollerabile per chi è dentro. Un'infermeria senza farmaci e una biblioteca senza libri diventano i paradigmi di una "naturalità" fatta di regole non scritte e non dette, ma che vanno imparate subito. 

Leggendo si prova compassione (nel senso alto del termine) e forse anche comprensione per chi è costretto a questa non-vita. E si sospira di sollievo quando il protagonista trova il padre ad attenderlo, all'uscita dal carcere. 

Gli altri due racconti " Il mio compagno di banco " e " Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta " hanno già nel titolo il loro tema. Ed è grazie allo stile dell'autore, scarno, asciutto, quasi rigoroso, che riusciamo a toccare quel banco di scuola, e a salire con lui per la prima volta in bicicletta.

Non si trova un aggettivo superfluo, nessuna descrizione eccessiva, alcuna caduta nel patetico nemmeno nel primo racconto. Ci sono solo il protagonista, solo anche quando è con gli altri, e il lettore, anzi la lettrice in questo caso. Come se i tre racconti fossero stati scritti apposta per la lettrice, che non è mai entrata in un carcere, non ha mai avuto un compagno di banco e ha imparato ad andare in bicicletta nonostante il padre. 

Cosa aggiungere? Solo, parafrasando Guccini, "Sandro....raccontane altre.". 






giovedì 2 luglio 2015

" L' Esposizione Universale" al Teatro India e le premonizioni di Luigi Squarzina .







Il mese scorso è andato in scena al Teatro India un testo inedito di Luigi Squarzina, scritto nel 1946, "L'esposizione Universale". Il titolo dell'opera si riferisce proprio a quell'Esposizione Universale, meglio conosciuta come E42, con la quale Mussolini avrebbe voluto celebrare il ventennale della marcia su Roma.

La prima rappresentazione teatrale del testo, dopo quasi settant'anni dalla scrittura (e censura), coincide non casualmente con l'evento EXPO 2015 a Milano. Esiste un filo conduttore che unisce il testo, lo spettacolo oggi e l'Esposizione di Milano?  
Da lombarda, che non ha ancora visitato l'EXPO, la prima assonanza che provo è con l'analoga speranza di creare una città nuova, abitazioni moderne, ricchezza, attrazione per i turisti stranieri, laddove ci sono periferia, abbandono, mancanza di risorse economiche. Mussolini prima della guerra all' EUR. Il Comune di Milano, il comitato organizzatore dell' Expo 2015, e tanti enti e investitori a vario titolo, nella zona di Rho-Pero. Questo per parlare solo degli aspetti positivi...

Il progetto di Mussolini non è stato portato a termine, come sappiamo, e infatti la pièce è ambientata nell'immediato dopoguerra, presso il cantiere dell' E42, dove sono accampati promiscuamente sfollati romani, che hanno perso la casa sotto i bombardamenti, come pure immigrati da varie parti d'Italia. Ed ecco il secondo nodo che lega all'oggi il testo di Luigi Squarzina: immigrati italiani, sul palcoscenico del Teatro India, senza lavoro, senza casa, che si arrabattano con mille mezzi, più o meno legali, per riuscire a sopravvivere. 
Nella realtà odierna migranti stranieri, sopravvissuti anche loro a guerre e persecuzioni come gli sfollati dell' E42, che cercano di arrivare in Italia nella speranza di una nuova vita. E come sui barconi troviamo l'umanità più varia, anche sul palcoscenico del Teatro India gli sfollati sono assai diversi fra loro.

C'è la vedova disperata con due figlie, una gravemente malata; la coppia di innamorati; il fotografo che non ha più pellicola per poter lavorare; l'idealista testa calda, che però si lascerà corrompere; il poliziotto ambiguo e viscido; e molti ancora. Due personaggi sugli altri, a rappresentare l'Italia che stava cambiando, il professore ex-fascista che ha perso un figlio durante la guerra, interpretato da Luciano Virgilio. E lo scrittore fallito, anche lui ex-fascista ma già riciclatosi, che vuole speculare su quell'area, attirando investitori stranieri che vogliono costruire alberghi di lusso. Per questo corrompe il giovane idealista affinché convinca i profughi (sempre italiani, ricordatelo) che è necessario lo sgombero. Lo scrittore, emblema di un' Italietta sempre pronta a salire sul carro del vincitore, è magistralmente interpretato da Stefano Santospago, che appare in scena, in mezzo agli sfollati vestiti quasi di stracci, in completo di lino bianco, accompagnato dalla figliastra, di cui sperpera il patrimonio in quanto tutore.

Squarzina, e con lui il regista Piero Maccarinelli, non lasciano vincere facilmente lo scrittore-speculatore: gli abitanti di E42 si rivoltano contro la polizia, animati dal giovane corrotto ma poi rinsavito. Ma alla fine gli sfollati si dovranno incamminare verso un vero e proprio campo profughi, il Campo Parioli (verrebbe da sorridere, se non fosse che questo campo, poi bidonville, è esistito davvero fino al 1958, quando si è cominciato a costruire il Villaggio Olimpico).

La scenografia povera, formata da letti e tavoli grezzi, rende bene l'ambiente in cui potevano vivere gli sfollati. Sullo sfondo dei grandi schermi, dove scorrono le immagini dell' Eur "incompleto". Bravissimi tutti gli altri attori giovani, allievi della "Silvio d'Amico" e del Centro Sperimentale di Cinematografia.

Uno spettacolo che meritava di essere finalmente scoperto, e non solo perché del grande Squarzina, ma per i tanti spunti di riflessione che offre allo spettatore italiano.

Mi auguro che venga riproposto nella prossima stagione, possibilmente al Teatro Argentina, dove le due ore e mezza senza intervallo saranno più "godibili" rispetto al Teatro India. Anche la spettatrice curiosa e appassionata rischia un crollo fisico, a causa delle poltroncine incollate le une alle altre e scomodissime, dove non è possibile né appoggiare i piedi a terra, né spostare un braccio. Per non parlare della mancanza di aria condizionata e dell'esterno in semi abbandono. Buona l'idea di allestire un aperitivo gratuito nel foyer, ma non basta per colmare queste carenze davvero essenziali. 

Speriamo che il direttore del Teatro di Roma Antonio Calbi, o chi per lui, ci metta mano prima dell'inizio della prossima stagione.




domenica 7 giugno 2015

" Der Park" ovvero le ragioni del fallimento della società contemporanea secondo Peter Stein....




"Der Park" ( Il Parco), scritto nel 1983 da Botho Strauss per essere messo in scena da Peter Stein, è tornato dopo trent'anni sul palcoscenico, dopo tanti altri tentativi mai andati in porto. 

Strauss si è ispirato al "Sogno di una notte di mezza estate" di Shakespeare, laddove del bosco delle fate rimane solo un groviglio di cespugli secchi e spinosi. 

Oberon e Titania, trasposti dalla commedia del Bardo, continuano a litigare per il giovane servo, ma hanno anche l'importante compito di risvegliare nei passanti del parco metropolitano (Berlino '83? Roma 2015?) una passione erotica irrimediabilmente persa. Il folletto sbadato Puck viene trasformato in un artista gay, Cypriano, che crea e vende feticci sessuali, utili a scombussolare le relazioni coniugali fra le coppie, come quelle di Georg ed Helen, Wolf ed Herma, versione borghese dei giovani innamorati del Sogno shakespeariano.

Anche nella pièce di Strauss, Titania subisce un incantesimo: poiché non riesce a frenare il suo desiderio sessuale, finisce per innamorarsi, non di un asino come nel Sogno, bensì di un toro. Nella messinscena di Peter Stein, Titania utilizza il posticcio di una mucca per poter essere "montata" dal toro, come nel mito greco di Pasifae, per partorire infine il Minotauro.

C'era tutto questo e c'era molto altro ancora nello spettacolo di Peter Stein, della durata di circa 5 ore (con 3 intervalli di dieci minuti scarsi ciascuno), andato in scena per tutto il mese di maggio al Teatro Argentina.

Il regista ha trasformato il Sogno shakesperiano in una crudele previsione sulla società contemporanea, dove i rapporti umani sono regolati solo dalle convenzioni e dagli interessi economici. Uomini e donne convivono senza condividere alcuna convinzione etica o politica, pronti a lasciarsi o a scambiarsi grazie a qualche feticcio sessuale, creato da un artista che ha abdicato al suo ruolo per avere soldi e potere.

Nei ruoli principali spiccano le superbe interpretazioni di Paolo Graziosi e Maddalena Crippa, moglie di Peter Stein. Graziosi, visto solo poche settimane fa nel dramma "Il ritorno a casa" di Pinter, è ambiguamente straordinario nell'impersonare un Oberon sconfitto, che non riesce a risvegliare gli istinti erotici degli umani, a conquistare per sé il giovane servo nero, e nemmeno a fermare l'inesauribile desiderio sessuale di Titania. Finisce così per incarnarsi in un borghese qualunque, un pochino rimbambito e preso in giro dai conoscenti, seduti ai tavolini da night club posti sotto il palcoscenico, davanti al pubblico.

Maddalena Crippa, straordinaria Titania dall'inesauribile passione erotica, non riesce a sedurre nessuno dei tre giovani, pur mostrandosi nuda, e deve fingersi mucca, con un artificio, per essere concupita dal toro. Anche lei, alla fine, si trasforma in una signora borghese, nell'ultima parte dello spettacolo, quando il figlio Minotauro organizza una festa per il venticinquesimo del suo matrimonio, disertata da quasi tutti gli invitati. 

Di tutto il rutilante, fantastico, avvincente, caotico, sorprendente spettacolo, con scenografie ricercate che si chiudono e si aprono verticalmente quasi a inghiottire magicamente lo spettatore, giovani punk, costumi bellissimi, evocazione di epoche distanti eppure ancora presenti in noi, alternanza di linguaggio aulico, borghese e proletario, forse proprio l'ultima parte è il punto zoppicante (e non per via degli zoccoli taurini del Minotauro). Quel lungo, troppo lungo e spesso incomprensibile monologo del Minotauro di fronte alla madre Titania, a me, e non solo a me, è parso barocco, inutile se non fuorviante. 

Uno spettacolo che è stato comunque energico, contraddittorio, a volte urticante, ma sempre volto a scuotere lo spettatore, il cittadino, l'uomo contemporaneo, che ha smesso di credere nel potere dell'amore, del'impulso erotico (nel senso alto del termine) e dell'arte. 

Sarà per questo motivo che la nostra società occidentale è alla deriva? Botho Strauss e Peter Stein, nel 1983 come oggigiorno, sembrano suggerirci una risposta in tal senso. 


martedì 5 maggio 2015

" Se Dio vuole" abbiamo un bel film italiano.





Per tutti quelli che si lamentano della scarsa qualità e ripetitività delle commedie italiane al cinema, ecco finalmente un film che ha tutte le carte in regola per piacere. 

Edoardo Falcone, al suo esordio alla regia, riesce a creare un’alchimia magica fra i due attori protagonisti, Marco Giallini e Alessandro Gassmann.  Per Gassmann una parte diversa dalle ultime interpretate (che pian piano lo fanno avvicinare all’irraggiungibile Vittorio): qui non è il solito sbruffone, senza cultura né principi, ma un prete “di frontiera”. Dove per frontiera si intende la metropoli romana, piena di giovani e meno giovani che hanno tante urgenze inespresse: il lavoro, l’amicizia, la comunicazione con gli altri. La prima apparizione di Gassmann/Don Pietro nel film ce lo mostra come un ibrido fra un divo rapper e un predicatore americano (che parla in romanesco).

Il suo carisma straordinario ha conquistato anche Andrea, il figlio di Marco Giallini/Tommaso, cardiochirurgo di successo con poca empatia e assai meno esitazioni. Andrea è l’unica persona sulla quale Tommaso proietta il suo affetto e le sue aspettative: sta studiando medicina e diventerà un ottimo  medico. L’altra figlia di Tommaso, Bianca, una divertente Ilaria Spada, non è che una povera stupida che passa le giornate dividendosi fra la tv e il marito Gianni, agente immobiliare (definito da Tommaso “il pusillanime”). Nemmeno la moglie di Tommaso, Carla, una sfiorita e intristita Laura Morante, riesce ad avere un suo ruolo come madre e moglie. 

Tutto ruota attorno al figlio perfetto, fino al momento in cui Andrea comincia a chiudersi in se stesso, a non studiare più. Per Tommaso non può che esserci una spiegazione: Andrea è gay, ma non ha il coraggio di fare outing. Per questo Tommaso, che non solo è ateo convinto, ma è anche sinceramente senza pregiudizi in materia di scelte sessuali, prepara tutta la famiglia a questa rivelazione. 

La sorpresa per lui, e per il resto della famiglia, sarà invece assai amara, quando Andrea confesserà che ha deciso di diventare prete e abbandonare gli studi di medicina. A questo punto la commedia poteva scadere nello stereotipo: meglio un figlio gay o un figlio prete nella società di oggi? La regia di Falcone, sorretta da ottimi dialoghi e dalla credibilità dei personaggi di Gasmann e Giallini, scompagina invece tutti i preconcetti sulla fede e sull'agnosticismo, senza mai porsi dalla parte della Chiesa o dei “credenti in altro”. La vocazione di Andrea spingerà tutti i personaggi del film, a partire dallo scettico e sospettoso Tommaso, fino alla moglie Carla e alla figlia Bianca, a rivedere la propria vita e le proprie convinzioni e abitudini. 

Il ritmo del film rimane, per tutta la sua durata, brillante, fresco. Si sorride e si ride di gusto ma con leggerezza, laddove, in altre commedie italiane, le battute su simili temi sarebbero state volgari e scontate. Ad ogni angolo di svolta (e ce ne sono varie), la verosimiglianza non viene a mancare, grazie alla sceneggiatura e ai due attori protagonisti. E nello stesso tempo si lasciano intuire spunti di riflessione, per chi vorrà pensarci dopo essere uscito dal cinema. Ottima anche la colonna sonora, con una bellissima canzone di De Gregori alla fine.

In conclusione una piccola perla di film, che smentisce tutti gli spettatori (e i critici) che ritengono che il cinema italiano sia morto.

martedì 7 aprile 2015

" Il ritorno a casa ", ovvero lo scandalo ancora attuale di Pinter .





Dopo circa tre ore di spettacolo al Teatro Vascello, la spettatrice attenta non si stupisce che "Il ritorno a casa" di Harold Pinter abbia scandalizzato alla sua prima rappresentazione, cinquant'anni fa. Ma oggi rimane solo l'eco di quello scandalo o, a distanza di alcuni giorni, il testo di Pinter ha scavato nel conscio (e nell'inconscio) della stessa spettatrice? 

Il regista Peter Stein ha mantenuto l'ambientazione della pièce: scenografie, costumi e oggettica in scena sono gli stessi logori e stantii del proletariato inglese inizio anni '60. Una famiglia che ha cercato disperatamente di diventare piccolo-borghese, ma a nulla sono serviti gli sforzi del padre-patriarca Max (uno straordinario Paolo Graziosi), macellaio per tutta la vita.

La famiglia di Pinter, tutta al maschile, si barcamena fra i servizi di Sam, fratello di Max, autista di limousine; gli sforzi da facchino e da pugile del figlio idiota Joey; e le pretenziosità di atteggiamento e abbigliamento dell'altro figlio Lenny, all'apparenza nullafacente, in realtà sfruttatore di prostitute. Quattro uomini che convivono in equilibrio precario, grazie al disprezzo reciproco e all'odio condiviso verso le donne (tutte puttane).

A sconvolgere quest'apparente equilibrio arriva il figlio maggiore Teddy, con la moglie Ruth. Teddy è riuscito a sfuggire ai tentacoli famigliari: si è laureato in filosofia e ora insegna, con successo, negli Stati Uniti; ha una moglie, due figli maschi, una villa con piscina. La coppia arriva di notte, nella casa paterna, senza avvertire nessuno. L'inaspettato ritorno a casa, dopo anni, di Teddy, ma ancor più l'ingresso in scena della moglie Ruth, innesca varie sequenze di svelamenti, sfide, minacce, e terribili insulti verso la donna. Tutto sembra preannunciare un esito drammatico. 

I crimini peggiori avvengono nelle famiglie, pensava Harold Pinter. Ruth, come tutte le altre donne, compresa la moglie defunta del patriarca Max, è una puttana. E una puttana è adatta solo a soddisfare tutti gli istinti repressi dei cognati, a tenere in ordine la casa, a cucinare, anzi dovrà contribuire al suo mantenimento prostituendosi, come le altre donne al servizio di Lenny. 

E il marito Teddy? Torna a casa, dai suoi figli e dalle sue lezioni al College. Quello che accade alla moglie Ruth è inevitabile: una prostituta come moglie vale quanto una prostituta per mestiere, che sia per strada o in casa della sua famiglia. Lui ha i suoi alti concetti filosofici a cui badare.

Ma Ruth, da vittima sacrificale della famiglia, comincia a dettare regole a Max, Lenny e Joey: sugli orari, sull'appartamento nel quale si dovrà prostituire, sulla cameriera che esige al suo servizio. Ecco che si fa strada, in modo imprevedibile e crudele, la teoria di Peter Stein: quando la donna comincia a dominare, perde le sue caratteristiche femminili. 

Così Ruth arriva, con un guizzo, a sedersi sulla poltrona, fino allora intoccabile, del padre-padrone Max. Inginocchiati attorno a lei, Max, Joey e Lenny, comprendono troppo tardi di aver messo le loro vite nelle mani di una donna (ancorché puttana). 

Il silenzio sospeso degli spettatori giovani e la malcelata condivisione del pubblico più adulto, mostrano che il dramma di Pinter, pur riprodotto senza alcun ammodernamento, è caustico e sferzante come negli anni Sessanta. Merito di Peter Stein, ma anche di una compagnia di attori affiatati e convincenti nel mostrare le quotidiane perversioni della famiglia tradizionale. Sopra tutti, oltre al già menzionato Paolo Graziosi (la parte di Max sembra scritta addosso a lui), Alessandro Averone, nel ruolo di Lenny: bravissimo nella sua inquietante e ambigua perversità. Straordinaria nello sconvolgere i piani (e gli spettatori) Arianna Scommegna, premiata come migliore attrice italiana agli UBU 2014 proprio per questa parte. 



domenica 15 marzo 2015

" Flaminio noir"





Partire da casa sotto la pioggia, meta l'Auditorium per "Libri come". Per vedere/sentire quale scrittore? Il programma del pomeriggio è già stato dimenticato.

Passare il semaforo di Corso Francia e sbagliare la discesa verso il Villaggio Olimpico. Trovarsi a Ponte Milvio. Arrivare fino a Ponte Duca d'Aosta, già innervosita dall'errore. Proseguire a colpo sicuro perché...la zona Flaminio la conosco bene, ci ho lavorato per 4 anni (mica nello stesso posto e non di seguito, ma ho battuto a piedi e in macchina ogni singola via, deserta e depressa anche in un sabato pomeriggio invernale).

Accorgersi che hanno cambiato la segnaletica, o forse è un mio lapsus freudiano. Passare, in soli 400-500 metri, davanti a due dei miei ex-posti di lavoro. Arrivare all'Auditorium, finalmente, girare per un altro quarto d'ora per trovare un parcheggio (non sono romana, ancora non ho imparato a parcheggiare sui marciapiedi o dove è vietato). Sbuffare per lo stress, come se non ne avessi abbastanza nei altri giorni della settimana. Andare dritto verso il bar (non quello rosso e figo, quell'altro). 

In fila, riconoscere la cassiera ma fare l'indifferente "Un caffè". La cassiera "Ma lei non è dipendente della Fondazione?" (il terzo posto di lavoro, il quarto stava a piazzale Flaminio). "Purtroppo non più" (accidenti, oggi è proprio un anno dalla fine del contratto e ancora mi riconosci, non ti facevo così fisionomista). 

Uscire dal bar, più rabbuiata di prima, a testa bassa, e finire quasi addosso a James Ellroy. Ho capito, un segno del destino. 

Stasera riprendo in mano uno dei suoi romanzi che ho a casa. Magari, stavolta, riesco a leggerlo fino alla fine.



martedì 13 gennaio 2015

“Uno strano luogo per morire” di Derek B. Miller - Neri Pozza





Un romanzo davvero particolare, ambientato in Norvegia ma che non ha nulla in comune con i gialli scandinavi, usciti numerosi negli ultimi anni. E nemmeno si tratta di un giallo, anche se all'inizio l’autore vuole farcelo credere: c’è un omicidio, c’è una caccia all’uomo, anzi al bambino, come nel film “Gloria” di John Cassavetes, solo che a fuggire con il bambino non è una donna, ma Sheldon Horowitz, un vecchio ebreo americano, trasferitosi da New York a Oslo per vivere insieme alla nipote Rhea. 

Un uomo solitario, forse malato di demenza senile, tormentato dal senso di colpa per aver spinto il figlio Saul, padre di Rhea, ad andare in guerra in Vietnam, dove poi è morto. Ma Sheldon è anche un uomo che continua la sua guerra personale contro i Coreani, che continua a vedere ovunque, fino a prendere le sembianze di criminali di guerra kossovari.

Se nelle prime pagine del romanzo, dopo la fuga di Sheldon con il bambino, non riusciamo a capire dove l’autore voglia andare a parare, presto diventiamo partecipi di questa fuga a due, che diventa anche un percorso di educazione sentimentale per il bambino. Chiamato Paul dal vecchio (un nome assonante a quello del figlio morto), il bambino, nato da uno stupro di guerra, rimane sempre muto per tutto il viaggio di iniziazione, come muti e ciechi siamo rimasti noi europei davanti agli orrori della guerra nella ex-Jugoslavia, o come lo sono stati molti norvegesi di fronte alle persecuzioni degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale.

Sheldon invece continua a parlare e racconta la sua vita, così siamo con lui sul delta del Mekong, a Saigon, e poi nel suo laboratorio di riparazione orologi a New York. Sheldon cerca di portare in salvo Paul, ma noi sentiamo che questa missione è disperata come quella che ha intrapreso il capitano Willard alla ricerca del colonnello Kutz in “Apocalypse now”.

Derek Miller, dopo infinite divagazioni storiche, antropologiche, religiose e filosofiche, sempre alleggerite dall’umorismo yiddish, porta Sheldon alla fine della sua missione e alla pacificazione con se stesso. Ha salvato Paul, il bambino che ha preso il posto di suo figlio, con un coraggio da giovane marine. E noi, chiudendo il libro, abbiamo trepidato con lui e per lui, e abbiamo scoperto qualcosa di più sulla Corea, sul Vietnam, sulla Seconda Guerra Mondiale e su come sono “strani” i norvegesi. Grazie, Sheldon!



venerdì 9 gennaio 2015

"La tela del ragno" ovvero un giallo brillante...







In questi ultimi giorni si fatica è davvero difficile trovare spunti per sorridere e meno ancora per ridere.
La spettatrice attenta, che in genere predilige gli spettacoli seriosi, magari anche un pochino "noiosi", stavolta consiglia "La tela del ragno" di Agatha Christie, in scena fino a domenica al Teatro Vittoria.

Un giallo di Agatha Christie, quindi un classico, eppure nello stesso tempo diverso da altre opere della scrittrice, perché non solo si sorride alle battute sempre ironiche, ma addirittura si ride per quasi tutta la durata dello spettacolo.

Nell'ottima traduzione di Edoardo Erba, con la regia di Stefano Messina, i personaggi entrano ed escono dalle porte nel salotto dove è avvenuto l'omicidio (che sempre di giallo si tratta), con tempi perfetti anche nelle battute, e il pubblico apprezza molto.
La suspense non viene meno, nonostante l'apparenza di commedia brillante, e il colpevole, almeno per la spettatrice attenta, rimane avvolto nel mistero fin quasi alla fine della pièce.

Gli attori della compagnia tutti bravissimi, a parte qualche "sbavatura" qua e là nelle battute (ma la spettatrice attenta ha assistito a una delle primissime repliche).
Menzione speciale per Viviana Toniolo, una giardiniera dal passato "equivoco", e per Kataklò, il primo cane attore mai visto sul palcoscenico: senz'altro più bravo di tanti attori umani.

Uno spettacolo ben fatto, ironico, spumeggiante ma mai volgare, che consente di dimenticare per un paio d'ore tutto il mondo fuori, e di uscire da teatro con il sorriso sulle labbra. E non è poco.