martedì 13 gennaio 2015

“Uno strano luogo per morire” di Derek B. Miller - Neri Pozza





Un romanzo davvero particolare, ambientato in Norvegia ma che non ha nulla in comune con i gialli scandinavi, usciti numerosi negli ultimi anni. E nemmeno si tratta di un giallo, anche se all'inizio l’autore vuole farcelo credere: c’è un omicidio, c’è una caccia all’uomo, anzi al bambino, come nel film “Gloria” di John Cassavetes, solo che a fuggire con il bambino non è una donna, ma Sheldon Horowitz, un vecchio ebreo americano, trasferitosi da New York a Oslo per vivere insieme alla nipote Rhea. 

Un uomo solitario, forse malato di demenza senile, tormentato dal senso di colpa per aver spinto il figlio Saul, padre di Rhea, ad andare in guerra in Vietnam, dove poi è morto. Ma Sheldon è anche un uomo che continua la sua guerra personale contro i Coreani, che continua a vedere ovunque, fino a prendere le sembianze di criminali di guerra kossovari.

Se nelle prime pagine del romanzo, dopo la fuga di Sheldon con il bambino, non riusciamo a capire dove l’autore voglia andare a parare, presto diventiamo partecipi di questa fuga a due, che diventa anche un percorso di educazione sentimentale per il bambino. Chiamato Paul dal vecchio (un nome assonante a quello del figlio morto), il bambino, nato da uno stupro di guerra, rimane sempre muto per tutto il viaggio di iniziazione, come muti e ciechi siamo rimasti noi europei davanti agli orrori della guerra nella ex-Jugoslavia, o come lo sono stati molti norvegesi di fronte alle persecuzioni degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale.

Sheldon invece continua a parlare e racconta la sua vita, così siamo con lui sul delta del Mekong, a Saigon, e poi nel suo laboratorio di riparazione orologi a New York. Sheldon cerca di portare in salvo Paul, ma noi sentiamo che questa missione è disperata come quella che ha intrapreso il capitano Willard alla ricerca del colonnello Kutz in “Apocalypse now”.

Derek Miller, dopo infinite divagazioni storiche, antropologiche, religiose e filosofiche, sempre alleggerite dall’umorismo yiddish, porta Sheldon alla fine della sua missione e alla pacificazione con se stesso. Ha salvato Paul, il bambino che ha preso il posto di suo figlio, con un coraggio da giovane marine. E noi, chiudendo il libro, abbiamo trepidato con lui e per lui, e abbiamo scoperto qualcosa di più sulla Corea, sul Vietnam, sulla Seconda Guerra Mondiale e su come sono “strani” i norvegesi. Grazie, Sheldon!



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