venerdì 30 dicembre 2016

" Il settimo manoscritto " di Fabrizio Santi, e di come un libro poco conosciuto possa essere determinante.







Dopo “ Il quadro maledetto ”, il primo romanzo di Fabrizio Santi (di cui potete leggere la mia recensione qui  ), ecco l’opera seconda, ambientata sempre a Roma ma con un protagonista differente. Giulio Salviati è uno scrittore romano di gialli, in crisi d’ispirazione dopo aver pubblicato alcuni libri di successo. Inaspettatamente uno sconosciuto gli propone, pagandogli una cospicua ricompensa, di indagare sul furto dell’Unicum, un manoscritto cinquecentesco trafugato dal monastero di S. Gregorio al Celio. Salviati, in parte perché ormai a corto di soldi, in parte perché non riesce a scrivere un nuovo romanzo, accetta la proposta.

Si ritrova così a indagare su questo manoscritto, che parrebbe senza valore né letterario né economico. Eppure nella vicenda lo scrittore troverà sul suo cammino ben due omicidi e una setta segreta dai fini misteriosi. Ad aiutarlo nel tentativo di risolvere il mistero c’è Elena, una giovane che lavora alla biblioteca Angelica, dove Salviati si reca per cercare tracce dell’ Unicum in altri libri.

Lo stile di Fabrizio Santi è sempre gradevole e la suspense è supportata da una buona dose di autoironia del protagonista. La caratteristica che ho apprezzato di più in questo giallo, come nel precedente, è la descrizione precisa, che non diventa mai fine a se stessa o pedante, di vie, luoghi, monumenti, dell’atmosfera stessa di Roma: si percepisce l’amore dell’autore per la sua città. 

Non manca, come nel romanzo precedente, un'aura di esoterismo che avvolge sia il manoscritto rubato, sia alcuni dei personaggi che il protagonista incontra nelle sue ricerche. E la fine del giallo, di cui non rivelo alcun particolare, lascia avvolto il lettore nel rinvio a un mistero imponderabile ma esistenziale che l'autore lascia intuire, così come era avvenuto ne " Il quadro maledetto ". 

Se c’è un neo nel romanzo è forse la descrizione della storia d’amore fra Salviati ed Elena, che vediamo nascere ma che pare rimanere sempre sospesa. Non penso che siano necessari dettagli “forti”, ma qualche cenno realistico, nei passaggi in cui il protagonista e la ragazza sono soli, avrebbe giovato all’impianto narrativo del romanzo e alla caratterizzazione dei due personaggi. Almeno secondo il mio personalissimo parere. 

Un romanzo che consiglio quindi agli appassionati del genere che non amano gli scenari pulp o le descrizioni troppo crude, ma che vogliono trovare rispettati i canoni dei gialli classici. Attendo comunque di leggere il terzo romanzo di Fabrizio Santi, al cui stile scorrevole ma a tratti erudito mi sono  già affezionata.





Il  romanzo, 335 pagine avvincenti, esiste in versione ebook e cartacea; lo potete trovare in tutte le librerie, fisiche e online, oppure direttamente sul sito della Newton Compton Editori  vedi qui 





sabato 26 novembre 2016

" Tra i malvagi " di Linda Castillo, indagine tra la neve e il gelo della comunità Amish.







Il nuovo romanzo di Linda Castillo non delude i fan di Kate Burkholder, la detective che ha lasciato la comunità Amish in cui era nata.

“ Tra i malvagi “ è un thriller dal ritmo teso, avvolgente, fin dal primo capitolo. Anche chi non ha letto i precedenti libri della Castillo riesce a comprendere la personalità della detective, grazie ad accenni al suo passato e, soprattutto, a questa indagine particolare. Kate si trova, infatti, a investigare su un presunto omicidio di una ragazza in una comunità Amish, come nei libri precedenti, ma stavolta sotto copertura. Deve quindi lasciare Painters Mill e trasferirsi nello stato di New York, con un nome falso e un passato inventato.

I brividi che si provano seguendo le indagini di Kate sono in parte dovuti alla sua assoluta vulnerabilità: è costretta a vivere in una roulotte persa nella campagna, senza elettricità, nascondendo sotto gli abiti tradizionali una pistola e un cellulare. Non ha nessuno a proteggerle le spalle, e in un paio di occasioni rischia di soccombere prima di risolvere il caso, assai intricato.

Ma una dose massiccia di brividi la si prova anche immergendosi nella situazione ambientale in cui Kate vive sotto copertura: dormire in una roulotte a dieci gradi sotto zero, mentre fuori continua a nevicare, un riscaldamento quasi assente, lampade a kerosene per avere poca luce, usare un monopattino per arrivare fino al centro della cittadina (gli Amish non usano mezzi a motore)….

Una poliziotta preparata e coraggiosa, ma soprattutto una donna davvero tosta, Kate Burkholder. Eppure, nonostante i disagi e i pericoli di questa indagine, per lei ci sono anche momenti di malinconia, quando entra in contatto con alcune donne Amish di questa piccola comunità. Ricamando con loro, con lo scopo di farsele amiche e avere informazioni sulla morte della ragazza, Kate prova nostalgia e anche un po’ di rimpianto per la “sua” comunità e famiglia di origine, che ha lasciato volontariamente. Ma di cui si scopre ad apprezzare alcuni valori che aveva dimenticato: la solidarietà femminile, la semplicità dei costumi, la vita spartana ma apparentemente serena. E nello stesso tempo Kate dovrà fare i conti con la distanza dal suo compagno, l’agente John Tomasetti, e con la volontà di essere autonoma cercando di non farlo soffrire.

Un romanzo con una scrittura grintosa, una trama per nulla scontata, dove in alcuni punti si percepisce la passione di Linda Castillo nel delineare i personaggi femminili, soprattutto giovani. Si arriva alla fine con la curiosità tesa a scoprire il colpevole, e sarà un colpo di scena finale a far apprezzare ancora di più la bravura della scrittrice americana.



" Tra i malvagi ", il nuovo romanzo di Linda Castillo, tradotto da Tessa Bernardi, è pubblicato dalla TimeCrime e lo trovate sia nella versione cartacea sia nella versione ebook. Potete acquistarlo anche direttamente dal sito della casa editrice   qui

Recensione scritta e pubblicata originariamente sulla rivista online MilanoNera, la potete leggere anche sul sito  http://www.milanonera.com/



domenica 6 novembre 2016

" Faber " di Tristan Garcia, e del come si costruisce (o si distrugge) un immaginario collettivo e personale.






I primi due capitoli di " Faber " mi hanno lasciata sgomenta, più che perplessa. Temevo di non farcela a proseguire: da subito ho avuto la sensazione di odiare il protagonista, Faber. Un uomo che si intuisce essere geniale, eppure sprofondato in un abisso senza fondo alla soglia dei trent'anni. Ma poi ho perseverato nella lettura, perché se i suoi amici d'infanzia, Madeleine e Basile, si erano presi la briga di andarlo a raccattare (letteralmente) in una baracca dimenticata da Dio e dagli uomini, allora qualche dote straordinaria questo Faber doveva averla. E ne ho avuto la conferma: attraverso la narrazione a punti di vista alternati dei tre amici, con imprevisti flash forward e repentini flash back, affrontiamo la sbalorditiva unicità di Faber "le destructeur", come da sottotitolo dell'originale edito da Gallimard

Il piccolo Mehdi, nato nel 1981 e subito abbandonato dai genitori algerini, viene adottato dai Faber, una coppia benestante e impegnata socialmente. Richard è un architetto di grande successo, Anna un soprano e una femminista militante. Per cinque anni Mehdi vive circondato dall'amore e dall'arte dei genitori adottivi, che si isolano dal mondo esterno, andando a vivere in una casa di campagna. In un incidente d'auto misterioso, però, Anna e Richard muoiono. Mehdi, persi ormai i contatti con il resto della famiglia Faber, ritorna in orfanotrofio. E viene nuovamente adottato, stavolta da una coppia di cinquantenni senza figli, Marthe e Jean. 

Dopo questi accenni biografici si potrebbe pensare che Tristan Garcia, giovane filosofo e romanziere francese, voglia raccontarci le vicissitudini di un piccolo orfano algerino, che cresce tristemente nella banlieu. Niente di più lontano dalla storia di Mehdi che, incontrando in terza elementare i coetanei Madeleine e Basile, lascia cadere il nome proprio Mehdi per diventare semplicemente Faber. Un ragazzino dall'intelligenza straordinaria, alimentata da curiosità e voracità estreme per gli argomenti e i libri più eterogenei. Faber è molto più maturo, più coraggioso, più saggio di tutti i suoi coetanei. Ma è anche così affascinante e furbo da riuscire a sedurre, manipolare e intimidire, nello stesso tempo, giovani e adulti. 

E Faber ci irretisce e ci trascina con sé attraverso tutto il romanzo, raccontandosi e lasciandosi raccontare dagli altri. Un novello Antoine Doinel che compie crimini reali (e immaginari) assai peggiori del furto di una macchina da scrivere, e che pare aver perso la sua innocenza assai prima di entrare nella scuola elementare di Mornay. Eppure, seguendo le sue gesta (perché Faber è un eroe), si ha spesso il dubbio che quella purezza ingenua e selvaggia, che solo i bambini e gli adolescenti posseggono, in lui non sia mai scomparsa. 

Fra le righe del romanzo di formazione di Faber possiamo individuare chiaramente una riflessione storica e filosofica sui "... figli della classe media di una paese occidentale medio, due generazioni dopo una guerra vinta, una generazione dopo una rivoluzione fallita. Non eravamo né poveri né ricchi, non rimpiangevamo l'aristocrazia, non coltivavamo sogni utopici e la democrazia ci era ormai indifferente.... " come spiega Tristan Garcia nella prefazione.

Un romanzo che affascina e sconvolge, perché ciascuno di noi ha incontrato un o una Faber nella sua vita. E se non lo avete incontrato, allora Faber siete voi...




" Faber " è uscito nello scorso settembre per NN Editore, grazie anche alla accurata traduzione di Sarah De Sanctis. Consiglio la lettura della sua NdT che offre motivazioni di alcune sue scelte traduttive e, per i cultori di filosofia contemporanea, anche ulteriori chiavi di lettura sul romanzo e sul filosofo Tristan Garcia

Un romanzo tumultuoso di 406 pagine, in cartaceo o in ebook, che potete acquistare anche direttamente sul sito di NN Editore, dove trovate anche il songbook del libro: la colonna sonora dell'adolescenza di Faber, Madeleine e Basile  da scoprire 








venerdì 7 ottobre 2016

" Il gioco del male " le nuove indagini per la detective Kim Stone di Angela Marsons.





Esce in Italia il secondo thriller della scrittrice inglese Angela Marsons con protagonista Kim Stone. Già il primo romanzo " Urla nel silenzio " mi aveva colpito positivamente (e se volete sapere i motivi trovate la mia recensione qui ) e ora il personaggio della detective Stone viene notevolmente approfondito. Scopriamo il suo tragico vissuto familiare e quindi comprendiamo meglio sia le cause della sua apparente asocialità sia l'empatia che prova per le vittime che incontra nel suo lavoro.

Ma il ritmo e la suspence de " Il gioco del male " non risentono di queste digressioni nel passato e nell'intimo di Kim Stone. L'inizio è adrenalinico e agghiacciante insieme: scendere con la protagonista nel seminterrato dove un padre abusa della sua bambina, sarà una sequenza che vi rimarrà impressa nel cuore, prima ancora che nella mente.

In questo secondo romanzo Kim Stone affronta anche una donna che ha fatto della sua sociopatia un'arma. Angela Marsons ha creato infatti una valida antagonista per la detective: Alex Thorne, una psichiatra che utilizza i suoi studi e la sua professione non per curare i pazienti ma per manipolarli e condurli al crimine. Il match investigativo e psicologico fra le due donne si trasforma in una lotta fra gatto e topo, dove entrambe sono costrette a scambiarsi di ruolo continuamente. Ed è proprio a causa della crudeltà mentale della psichiatra che veniamo a conoscere molti particolari sull'infanzia e sulla madre di Kim Stone. 

Decisamente interessante la figura della psichiatra, con lei Angela Marsons ci rivela i meccanismi inquietanti e pericolosi nella mente di una persona sociopatica. A riprova della ricerca dell'autrice sull'argomento, come indicato nei ringraziamenti in coda al libro, vi cito questo frase sibillina pronunciata da uno dei personaggi "I sociopatici possono cadere, ma solo se un numero sufficiente di persone punta il dito contro di loro." Uno studio scrupoloso e impietoso insieme, che mi ha dato modo di riflettere su alcune persone che ho incontrato nella mia vita e che potrebbero essere tranquillamente inserite in quella categoria. D'altra parte, ormai lo sapete, se un giallo o un noir non mi danno occasione di allargare le mie conoscenze in qualche ambito, vuol dire che non sono stati scritti per me. 

Al di là delle mie curiosità personali, il thriller è costruito ottimamente, tutti i personaggi sono ben delineati e, soprattutto, il paesaggio cupo e depresso della Black Country sembra riflettere l'animo sofferente della protagonista. Luoghi e persone sono descritti minutamente, quasi a farci capire che Angela Marsons, come Kim Stone, in quella zona ci vive da sempre, ne conosce le passate ricchezze e le attuali brutture, ma ama quei posti e prova solidarietà per i suoi abitanti. Sembra che " Il gioco del male " sia piaciuto anche a un famoso critico letterario italiano, che ha decretato Angela Marsons " la nuova regina del giallo "... Un ringraziamento anche alle due traduttrici Erica Farsetti e Angela Ricci, che hanno reso al meglio la scrittura e il ritmo del romanzo. Un thriller intenso, energico e ruvido come la protagonista, da leggere nelle serate piovose autunnali in attesa del capitolo n. 3, che è uscito da tempo in UK con il titolo " Lost girls "




Il libro è uscito il mese scorso in Italia per la Newton Compton Editori, non riuscirete a posarlo finché non arriverete in fondo alle 380 pagine, è disponibile sia in formato cartaceo sia in ebook  vedi qui






domenica 25 settembre 2016

" Il turista " ovvero il serial killer in trasferta, la nuova creatura di Massimo Carlotto.









Massimo Carlotto sorprende i lettori affezionati all’Alligatore e alle sue vicende. Il protagonista del nuovo romanzo è un serial killer inafferrabile, soprannominato “il Turista” perché uccide in varie città europee, camuffandosi e mimetizzandosi fra i turisti. Le sue vittime sono tutte donne sole, belle e, soprattutto, ricche tanto da potersi permettere borse di Alexander McQueen, Hèrmes e via spendendo. Non è la donna il bersaglio del serial killer, infatti, ma la sua borsa griffata, all’interno della quale c’è un intero mondo in cui potersi immergere e godere. Abel Cartagena, omicida sociopatico, apparentemente conduce una vita normale: si destreggia fra la moglie e l’amante grazie alla mancanza di empatia e di rimorsi, oltre che alla sua abilità nel manipolare le persone. Si è inventato una professione, lo studioso di musicisti poco conosciuti, che gli consente di viaggiare molto senza destare sospetti. Proprio per compiere un ennesimo delitto il Turista arriva a Venezia


A contrastare i suoi piani troviamo Pietro Sambo, un ex commissario stropicciato e con un passato recente da dimenticare. Massimo Carlotto ce lo fa conoscere mentre cerca di risalire la china, faticosamente, perché un veneziano che ha commesso degli errori non può nascondersi nella sua città: tutti sanno tutto.

Tuttavia l’attenzione dello scrittore è rivolta più al serial killer che, contrariamente a quanto abbiamo visto spesso nei film e serie Tv americane, è uno psicopatico lucido e consapevole di esserlo. A Venezia Abel Cartagena si ritrova, suo malgrado, avviluppato fra  le trame torbide di un gruppo internazionale di assassini mercenari, denominato “i Professionisti”. Per colpa di una vittima sbagliata, il serial killer si vede costretto dall’organizzazione a uccidere per incarico loro, invece che per suo esclusivo piacere.

Un manipolatore manipolato, un assassino psicopatico manovrato da un’organizzazione sovranazionale ancora più folle e criminale di lui. E accanto ad Abel Cartagena un’assassina seriale che incrocia il suo cammino insanguinato, come efferati Bonnie and Clyde. 

Sono molti gli spunti di interesse e di riflessione in questa nuova prova di Massimo Carlotto. La sua abilità nel catturare il lettore con una scrittura tesa e una vicenda complessa non viene mai meno, e mentre la tensione scorre adrenalinica fra le calli, osserviamo con tristezza lo scempio perpetrato ai danni di Venezia dalle navi da crociera e dal turismo frettoloso. Ma forse la caratteristica più particolare è la proprio la giustapposizione fra i due assassini seriali e l’organizzazione criminale che uccide su mandato. Come se ci fosse in Massimo Carlotto una punta di “nostalgia” per i crimini perpetrati per motivi personali, più o meno comprensibili o giustificabili (e in fondo anche gli omicidi del Turista perseguono una loro logica per quanto folle). 

Non vi racconto nulla sull’esito del romanzo, ma credo che, quasi sicuramente, incontreremo di nuovo Pietro Sambo. Almeno questa è la mia speranza da fan inguaribile dello scrittore. 



Con " Il turista "  Massimo Carlotto passa alla Rizzoli (sarà un cambio di scuderia definitivo o è solo per rimarcare una differenza con i romanzi precedenti?); il romanzo è uscito il 1°settembre, 300 pagine da leggere d'un fiato, in versione cartacea e in ebook  vedi qui








domenica 11 settembre 2016

" La Confraternita delle ossa. La prima indagine di Enrico Radeschi " di Paolo Roversi, una Milano tutta da bere a cavallo di una Vespa gialla.






Nel mese di agosto ho avuto l’opportunità di leggere in anteprima, con altri 100 fortunati lettori, l’ultimo romanzo di Paolo Roversi “ La Confraternita delle Ossa “, che costituisce un prequel ai precedenti cinque gialli con protagonista Enrico Radeschi.

Nel romanzo scopriamo così la “nascita” del personaggio Radeschi, un cronista di provincia, non ancora trentenne, che si trasferisce a Milano per tentare il grande salto: entrare nella redazione news di un quotidiano o di una Tv milanese. 

Il caso e la fortuna fanno sì che Enrico Radeschi, proprio durante un colloquio di lavoro, incappi nell’omicidio di un importante avvocato e, nel contempo, salvi la vita al suo probabile datore di lavoro, colpito da infarto. Lavoro sfumato, ma prima inchiesta milanese per Radeschi, che è l’unico ad accorgersi di un misterioso simbolo tracciato dall’avvocato con il suo sangue, prima di morire nella centralissima piazza Mercanti. Ecco l’inizio della vicenda, raccontata in modo adrenalinico e anche ironico, proprio perché Radeschi, giovane e inesperto, dovrà ingoiare parecchi rospi prima di scrivere per un vero giornale. 

Gli elementi classici di un giallo dalle tinte noir ci sono tutti: dopo quello dell’avvocato ci saranno altri omicidi che portano il sigillo di una setta esoterica, che fa base nella cripta della Chiesa di S. Bernardino alle Ossa. E c’è anche un altro filone di indagine: giovani ragazzi di bell’aspetto che vengono sedotti e uccisi da una serial killer, una femme fatal che si trasforma in mantide religiosa.

Il nostro cronista balza in sella a una Vespa d’epoca, ridipinta di giallo, e si trasforma in un investigatore. Grazie alle lezioni dell’amico con cui condivide l’alloggio, scopre le potenzialità del nascente Internet, si improvvisa hacker e crea un blog dove pubblicare i suoi articoli di nera.

Siamo nella Milano dei primi anni Duemila, e leggendo questo romanzo ho provato più di una fitta di nostalgia, dato che all’epoca ero più o meno coetanea di Radeschi e frequentavo l’università a Milano. A pedinare il protagonista e gli altri personaggi ci accorgiamo che quel mondo è solo l’altro ieri, eppure è già giurassico: il passaggio dalla lira all’euro; le prime Tv a pagamento; l’evoluzione di Internet; la scomparsa delle video cassette a favore dei Dvd; l’happy hour nei locali della movida milanese.

Bellissima questa Milano, che lentamente da fondale diventa coprotagonista del giallo, con il freddo, la nebbia che solo noi lombardi sappiamo apprezzare, gli angoli più nascosti e pittoreschi. Una città che Paolo Roversi ci fa scoprire con l’incanto e l’amore che noi provinciali sentiamo (e infatti l’autore è milanese di adozione ma nativo di Suzzara), quando questa città apparentemente algida e schiva si lascia penetrare.

Un romanzo con tante frecce al suo arco. Riuscirà Enrico Radeschi a risolvere entrambi i misteri, con l’aiuto del disincantato vice questore Loris Sebastiani? Ce la farà a diventare un vero giornalista della carta stampata? Troverà una ragazza che lo apprezzi? Le risposte le potete già intuire, ma vi assicuro che vi divertirete moltissimo a scoprirle seguendo la scrittura agile e avvincente di Paolo Roversi.




La Confraternita delle Ossa. La prima indagine di Enrico Radeschi”, in libreria dall’otto settembre (396 pp.), è pubblicato dalla Marsilio ed è disponibile sia nella visione cartacea sia in ebook   vedi qui





venerdì 12 agosto 2016

" Lo Sgarro. Rocco Sigaro e il delittaccio della Garbatella " di Leonardo Jattarelli, o di come indaga su un terribile delitto un ex-poliziotto.






Un romanzo noir che ha dalla sua parte due punti di forza: il primo è il protagonista, Rocco Sigaro, che ha deciso di lasciare la polizia e di traslocare dall’Eur alla Garbatella, il secondo è proprio la Garbatella, dove è ambientata la vicenda. L’autore è Leonardo Jattarelli, giornalista de “Il Messaggero” per le pagine Cultura e Spettacoli, ma che in passato si è occupato di cronaca nera, e quest’esperienza si percepisce fin dalle prime righe.

L'autore vive alla Garbatella da 25 anni, e grazie al  suo sguardo affettuoso, quasi appassionato, arriviamo a conoscere non solo gli angoli più particolari di questo rione, ma anche i personaggi che vi abitano. Incontriamo un’umanità genuina, popolare che, forse, è scomparsa nella maggior parte dei quartieri “storici” di Roma. Personaggi così verosimili nella loro descrizione anche nei soprannomi, come i gemelli “diversi” Pesciolino e Pompa, Tinta, dai capelli mutevoli ogni giorno, la Fascistona, il Don, che finiamo per affezionarci subito a ciascuno di loro.

Rocco Sigaro, che ha abbandonato la polizia per motivi che andiamo scoprendo attraverso dei flash back nel romanzo, viene chiamato dal PM Petrosino per farsi aiutare nelle indagini sulla morte misteriosa di Carla Palumbo. Una ragazza che ha perso i suoi genitori da piccola, ed è cresciuta con gli zii alla Garbatella. Da sempre gentile e premurosa con tutti, nei mesi precedenti alla morte Carla si era trasformata in un’altra persona, misteriosa, arrabbiata, sfuggente. 

Rocco, con la collaborazione di Civetta e Saltimbanco, riesce a sbrogliare la vicenda, e il noir mantiene un ritmo elevato, anche nei punti dove il protagonista si confida con noi, raccontandoci i suoi fallimenti come padre, come marito e, in parte, come poliziotto. Rivelazioni condivisibili da molti lettori e lettrici che hanno girato la boa dei 40 anni, rese con uno stile introspettivo e malinconico. Non si può che rimanere conquistati dalla figura di Rocco, ex-poliziotto “loser” che alterna momenti bui, dove si aiuta con le benzodiazepine, a indagini rischiose alla Garbatella.  

Attraverso stralci di narrazione che ci raccontano il punto di vista di altri personaggi, coinvolti in vario modo nel delitto, arriviamo a intuire le vicende che hanno portato alla morte di Carla. Lo svelamento finale è affidato a Rocco Sigaro, che nel risolvere il caso scopre insieme a noi particolari curiosi ed esoterici della Garbatella. Notevoli e utili nel comprendere l'ambientazione sono le foto in b/n di Marco Rocchi, nelle ultime pagine del libro, che ci mostrano i luoghi de “Lo Sgarro”.

Un noir avvincente e crepuscolare nel contempo, che affascina nella lettura sia chi conosce la Garbatella sia chi non ci è mai stato. “Lo Sgarro” è sorretto da una profonda conoscenza della cronaca nera e da una scrittura fluida, intensa ma venata da squarci di confidenze ironiche e disincantate. Mi auguro di poter incontrare di nuovo Rocco Sigaro in un altro romanzo, ambientato alla Garbatella o altrove a Roma.



Il libro della NED Edizioni si può acquistare in formato cartaceo in tutte le librerie Feltrinelli e in altre librerie a Roma, oppure su IBS  vedi qui


martedì 19 luglio 2016

" Il quadro maledetto " di Fabrizio Santi, una pericolosa caccia al tesoro in una Roma insolita.







Sul mio blog, dalla recensione di questo libro in poi, ci sarà una nuova etichetta, o categoria se preferite. E il titolo dell’etichetta è “Delitti misteri e indagini nella Città Eterna”. Si intuisce facilmente che ci troverete riunite tutte le mie impressioni e suggestioni su gialli, thriller, noir et similia ambientati, in tutto o in parte, nella Capitale; anche i miei post precedenti con lo stesso argomento potrete rintracciarli sotto questa etichetta.

E passiamo subito a un thriller molto particolare,"Il quadro maledetto". Il protagonista non è né detective né poliziotto e tanto meno giornalista. Theodor Klinsmann, professore tedesco di Heidelberg, appassionato di cultura italiana, giunge a Siena per passarvi una parte del suo anno sabbatico. E’ ospite della zia Greta, trasferitasi dalla Germania molti anni prima. Theodor gira per le contrade incantate dei piccoli borghi toscani, conosce nuovi amici e forse incontra l’amore. Ma a sconvolgergli l’esistenza è il racconto di un quadro misterioso, che appare e scompare da una chiesetta di Montalcino. Un quadro che nessuno ammette di aver mai visto, anzi di cui tutti negano l’esistenza. Salvo poi trincerarsi dietro il divieto di parlarne perché si tratta di un quadro maledetto, che porta alla follia coloro che lo vedono o che lo cercano.

La ricerca di questo quadro porta Theodor a Roma, città che conosce abbastanza bene. Qui inizia la parte più avvincente e interessante della storia: insieme al protagonista si scoprono luoghi particolari, piccole chiese antiche e poco conosciute, leggende esoteriche. La caccia al tesoro, anzi al quadro, porta Theodor a scontrarsi con persone sconosciute che lo ostacolano, sette misteriose, indizi inquietanti. 

Un affresco di Roma assai diverso da quello che siamo abituati a vedere, con riferimenti anche filosofici e verità nascoste nei libri degli antiquari. Un thriller dal ritmo avvincente e tuttavia colmo di spunti da approfondire per gli studiosi, e i curiosi, di Roma e dei suoi misteri. E la professione dell'autore, Fabrizio Santi, insegnante di liceo al suo esordio letterario, influisce forse sulla parte "divulgativa" del romanzo. Il finale? All’altezza della storia e spiazzante insieme. Consigliato a chi cerca un brivido freddo ma “colto” per le calde serate estive. 


" Il quadro maledetto " ( 366 pp)  lo trovate in due versioni cartacee e anche in e-book direttamente sul sito della Newton Compton Editori vedi qui 




martedì 21 giugno 2016

La Trilogia della pianura di Kent Haruf, o del perché i lettori italiani amano questo autore.






In genere sono restia a leggere libri che ottengono subito ottimi risultati di critica e di vendite, preferisco leggerli a distanza di tempo. E’ una scelta che deriva dalla mia abitudine all’analisi dei film di successo: o vederli prima che escano nelle sale, o alcuni mesi dopo, per giudicarli, per quanto possibile, in modo oggettivo. Nel caso dei tre romanzi dello scrittore americano Kent Haruf ho fatto un’eccezione: il numero elevato di consensi entusiastici da parte di amici, conoscenti, giornalisti, mi ha incuriosito. Ho letto prima “Canto di pianura”, poi “Benedizione” e per ultimo “Crepuscolo”. Consiglio di leggere il primo e il terzo in sequenza, perché alcuni personaggi ritornano nei due romanzi. ”Benedizione” è indipendente dagli altri.

Non è facile mettere su carta le emozioni che ti pervadono durante la lettura di questi tre romanzi, e che permangono a lungo dopo averli finiti. Per prima cosa è stato arduo, dopo, iniziare a leggere un libro di un qualsiasi altro autore: la scrittura di Haruf è così essenziale, asciutta, purificata da fronzoli e orpelli di ogni genere, che ogni scrittore, dopo, appare “eccessivo”.

Uno stile che riflette la quotidianità dei personaggi di questi romanzi, che nella loro ostinata lotta verso le ineluttabili avversità della vita mi hanno ricordato le creature di William Faulkner. L'autore narra le storie comuni di allevatori e agricoltori che lavorano duramente anno dopo anno. Di donne, giovani e meno giovani, che rimangono sole e disperate dopo l’abbandono di un uomo. Di uomini che perdono tutto perché si ostinano a rimanere fedeli ai loro valori. Di bambini che si ritrovano ad affrontare situazioni che sarebbero gravose anche per un adulto. Tutti parrebbero senza speranza, e Kent Haruf non esercita alcuna pressione inconscia su di noi, per farci provare compassione verso i buoni e ostilità verso i cattivi. Ogni avvenimento è palesemente ineluttabile, ma non a causa di un Dio malvagio o distratto. Inevitabili sono le sofferenze e la solitudine degli uomini proprio perché sono esseri umani; così come le sofferenze degli animali appartengono alla natura degli animali stessi.

L’autore descrive, osserva. Non giudica né assolve. Ci fa vivere in una cittadina inesistente del Colorado, Holt, e nelle sue campagne. Un viaggio fuori dal tempo e dallo spazio, dove a malapena è arrivata la televisione e i cellulari non esistono. Un non-luogo dove la vita di ciascuno è scandita dalle stagioni, dal lavoro quotidiano e dall’incontro apparentemente casuale con le esistenze altrui. A Holt nessuno si stupisce se un ragazzino di undici anni, rimasto solo, si occupa del nonno anziano e malato. O se genitori incapaci di badare a se stessi non sanno difendere i figli dalle violenze altrui. O se uomini crudeli vivono sulle spalle di donne sole. 

Eppure c’è una luce fra le righe di Kent Haruf. La luce limitata e diafana di un crepuscolo che giunge a portare riposo e conforto a tutti gli abitanti di Holt. Ed è questa luce a portare trasformazioni inconcepibili nella vita di molti abitanti. Così due vecchi fratelli solitari e scontrosi accolgono in casa una ragazzina sola e incinta. E due ragazzini abbandonati dalla propria madre si prendono cura di una anziana donna sola.

Non c’è alcun richiamo alla provvidenza divina nelle azioni spontanee e generose di alcuni personaggi. Esiste, di contrappunto, una certa dose di malvagità estrema, senza giustificazione né redenzione. Eppure alcuni uomini e donne faticosamente cercano di portate rimedio agli errori personali (come il protagonista di “Benedizione”) o a quelli altrui. Li spinge il senso di appartenenza a una comunità umana che non può sopravvivere senza solidarietà.


Un plauso alla giovane casa editrice NN Editore, che ha esordito portando per la prima volta in Italia “Benedizione” (e poi gli altri due altrettanto inediti), e a Fabio Cremonesi per le traduzioni impeccabili.


"Benedizione ", "Canto della pianura" e "Crepuscolo" usciti fra l'anno scorso e quest'anno, sono disponibili sia in cartaceo sia in ebook, sul sito della casa Editrice vedi qui o anche qui




mercoledì 18 maggio 2016

"L'impostore" di Javier Cercas, ovvero una menzogna in cui tutti credono non è più una menzogna?







Di solito scelgo un romanzo mossa dalla curiosità per un autore che non ho mai letto, oppure per avere la conferma di un autore che già apprezzo. Ho deciso invece di leggere “L’impostore” di Javier Cercas, scrittore, giornalista e docente di letteratura spagnolo, perché volevo cercare di comprendere la psicopatologia di un impostore o mitomane, di un bugiardo seriale insomma. Categorie che vantano numerosi adepti (o affetti?) di entrambi i sessi. Ma ancora di più mi interessava comprendere quale fosse il meccanismo inconscio che fa cascare molti di noi, comuni mortali condannati alla sincerità, nella ragnatela dell’impostore o della mitomane di turno. 

Non potevo trovare migliore “romanzo vero”, e nel contempo “opera di finzione”, creata dal protagonista del romanzo stesso. Enric Marco, ultranovantenne di Barcellona ancora in vita, militante antifranchista, poi segretario del CNT, il sindacato anarchico spagnolo, in seguito presidente degli Amical di Mauthausen, l’associazione spagnola dei sopravvissuti all’Olocausto. Un uomo che ha attraversato settant’anni di storia spagnola come un eroe. Un impostore, come pubblicamente smascherato dallo storico Benito Bermejo nel 2005.

Javier Cercas ci racconta i suoi dubbi e la ritrosia, durata alcuni anni, a scrivere di Enric Marco. Poi, presa la decisione, eccolo lavorare come uno storico e un investigatore insieme: indaga, analizza documenti storici molto lacunosi, cerca e intervista testimoni. Tutto per poter comprendere e dimostrare se “veramente” (un avverbio usato spesso da Enric Marco nelle sue interviste) la vita del protagonista sia un cumulo di menzogne. Un romanzo con il quale Cercas non vuole né difendere né accusare Enric Marco, quanto piuttosto comprendere lui e analizzare le dinamiche di buona parte della storia spagnola del ‘900. 

La parte più interessante e affascinante del romanzo è proprio quella delle indagini storiche, molto meticolose, e delle interviste a Enric Marco. Scopriamo insieme allo scrittore che il protagonista è figlio di un padre alcolizzato, che non si è mai curato di lui, e di una madre pazza, tanto da essere nato in manicomio. Dopo essere vissuto con gli zii paterni, ha sì militato nelle file repubblicane, ma senza quegli atti di eroismo da lui raccontati. Sotto la dittatura franchista ha invece cercato di sottrarsi al servizio militare obbligatorio, offrendosi come operaio volontario per lavorare nella Germania nazista. Lì è stato brevemente imprigionato, ma in un carcere civile e non in un campo di concentramento.

Ma allora come è possibile che si sia fabbricato una vita “fittizia” da eroe antifranchista e da reduce del campo di concentramento di Flossenburg? E, soprattutto, come ha potuto prendere in giro per settanta anni familiari, colleghi, amici, giornalisti? Secondo l'autore tutto è stato possibile perché negli anni del passaggio dalla dittatura alla democrazia la Spagna è stato un Paese narcisista tanto quanto Enric Marco. La democrazia spagnola è stata costruita su una grande menzogna collettiva, formata da tante menzogne e omissioni personali. Il protagonista è sempre stato con la maggioranza della popolazione, o meglio ha raccontato quello che la maggioranza degli spagnoli voleva sentirsi raccontare.

Ritornando all’avverbio “veramente”, secondo l’autore bisogna veramente diffidare dei predicatori di verità, perché come l’enfasi sul coraggio smaschera il vigliacco, l’enfasi sulla verità denuncia il bugiardo. Enric Marco è stato un campione di narcisismo e di kitsch, lo strumento di cui si serve il narcisista bugiardo per il suo esercizio costante di occultamento della verità. Marco, come un novello Don Chisciotte, non vuole conoscere o riconoscere la verità per non conoscere o riconoscere se stesso, perché disprezza il suo vero “io”.

Ma esistono verità cattive e verità “buone” o bugie bianche? L’infaticabile, per quanto confusionario, lavoro di Marco a capo degli Amical di Mauthausen, non è forse servito ad aprire uno squarcio su un capitolo della storia spagnola di cui nessuno voleva parlare? E tutti i giovani che ha avvicinato e influenzato con i suoi discorsi carismatici, non gli sono debitori di una passione politica che forse non avrebbero sviluppato? 

Il discorso diventa più complesso e sfaccettato di quanto poteva sembrare iniziando a leggere il libro, soprattutto quando Marco, durante una delle interviste di Cercas, accusa lo scrittore di essere, come lui, un bugiardo e di voler scrivere il libro sulla sua vita solo per avere soldi e successo. Lo scrittore ammette, a se stesso e a noi lettori, che scrivere libri è una forma socialmente accettata di narcisismo, e a questo punto si apre uno spazio di metaletteratura: Cercas, come ogni scrittore, è un narcisista e utilizza la finzione, quindi è anche lui un bugiardo. 

Un libro davvero bello da leggere, sia per chi è appassionato di storia sia per chi non apre manuali della materia dai tempi del liceo. Una vicenda sulla quale Cercas lavora studiando il passato da scrittore, non da storico, perché condivide l’affermazione di Faulkner: il passato è soltanto una dimensione del presente. Un romanzo in cui si possono trovare numerosi spunti di riflessione personali, come anche interrogativi storici e politici che valgono sia per la Spagna franchista e post-franchista sia per l’Italia contemporanea.


Il romanzo, tradotto da Bruno Arpaia, è uscito l'anno scorso per la casa editrice Guanda, ed è disponibile sia in ebook sia in cartaceo   vedi qui .




mercoledì 4 maggio 2016

“Carne” : siamo ciò che mangiamo, o mangiamo perché siamo?








Testo di Fabio Massimo Franceschelli
Diretto e interpretato da Elvira Frosini e Daniele Timpano.

Due settimane fa, in prima nazionale al Teatro dell’Orologio, il nuovo spettacolo di Elvira Frosini e Daniele Timpano, una coppia anche nella vita. Durante lo spettacolo ho intravisto una mise en abîme della rappresentazione, un racconto nel racconto, con due cerchi concentrici che uniscono i punti di snodo drammaturgici.

A unire le due cornici, il disegno sonoro e le musiche di Ivan Talarico. In una scenografia inesistente, a parte i due microfoni ad asta, le musiche sono pervase da suoni e rumori, cercano di ricostruire ambienti e aggiungere spazio alla scena. Sottolineano e rispondono dialetticamente ai due personaggi, quasi a interpretare i pensieri del pubblico, venendo a creare così un terzo personaggio, invisibile ma ben presente. 

cornice-cerchio – fermo immagine dei due attori davanti al microfono – inizio e fine dello spettacolo .

Elvira Frosini e Daniele Timpano sono vestiti di nero, in abiti eleganti, quasi a sottolineare l’importanza delle discussioni e la pregnanza del testo. Lo spettacolo inizia e finisce con un fermo immagine dei protagonisti di fronte ai due microfoni ad asta. Alla fine lei spiega che l’immagine vuole rimandare alle opere d’arte di Gunter von Hagen. Il discusso artista/antropologo tedesco ha creato Bodyworld, una mostra itinerante di cadaveri "plastinati" attraverso un complesso procedimento, che da anni raccoglie milioni di visitatori in tutta Europa.

All’interno di questa cornice assistiamo allo scambio vivace di insulti e battute fra i due: più ironici quelli di lui: “Lattugaia, frulla-frutta, crudaiola”, più crudi e offensivi quelli di lei “Zombie, genocida, necrofilo”. Ascoltiamo le spiegazioni etico-filosofiche di lei, che motiva la sua scelta vegetariana con assunti che partono dalla bioetica per arrivare all’ecologia e alla compassione per gli animali, visti come uguali a noi. 

Lei giunge anche a narrare un intermezzo poetico: il racconto indiano dell’uomo che smise di andare a caccia, quando una tigre lo fece riflettere sulla possibilità di scelta dell’essere umano. Ridiamo, al contrario, delle prese in giro ironiche di lui. Speculare al racconto dell’uomo indiano c’è l’aneddoto, palesemente falso e paradossale, di lui e del suo cane che sacrifica due zampe per l’armonioso vivere.

In questa cornice possiamo pensare che i due abbiano cominciato a convivere, pur conoscendo bene le rispettive diverse visioni della vita. E che poi il quotidiano abbia portato a non armonizzare le due opposte filosofie ma anzi a estremizzarle.

2° cornice - cerchio –   prima cena ristorante: filetto al sangue - rivolo di sangue bocca di lui –  dopo la nascita del figlio: bistecca cruda nella bocca di lei – rivolo di sangue dalla bocca di lei.

Dal racconto in flashback del primo incontro dei due protagonisti, comprendiamo che la dialettica fra i due e, soprattutto, l’intransigenza di lei verso le scelte alimentari di lui, sono sempre state le stesse. Il resoconto vivido e ironico del loro primo appuntamento al ristorante, ci mostra un lui che ordina un filetto al sangue e una lei che non riesce a trattenere il disgusto per quel rivolo di sangue che gli scende dalla bocca.

Eppure i due hanno continuato a frequentarsi, dopo quella prima cena disastrosa, anzi ora vivono insieme, anche da alcuni anni. E i litigi sulla carne continuano ad alimentare la loro vita a due, di cui nulla altro sappiamo, né del lavoro, né di amici o parenti. La diatriba sulla carne pare essere il collante stesso, se non l’unico motivo di incontro/scontro della coppia. Vi è una coesistenza degli opposti che non possono stare l’uno senza l’altro.

Ma a un certo punto la seconda cornice interna alla narrazione drammaturgica si chiude. Si giunge infatti a una svolta: la coppia sta per diventare una famiglia. Lei scopre di essere incinta e rivela che il medico le ha consigliato una dieta con carne per una carenza di ferro. 

Da una rassegnata accettazione di un diktat alimentare per motivi medici, lei passa immediatamente a ordinare, in modo perentorio, una serie infinita di piatti di carne, i più eterogenei e assurdi (tranne il maiale “che provoca toxoplasmosi”) . Sentiamo solo la sua voce stentorea dietro una tenda, con una luce rossa sul palco ad alludere al sangue della carne. Lo spettatore si aspetta la rivelazione delle contraddizioni retoriche di lei, mentre lui corre affannato, le spalle al pubblico, cercando di portarle tutti i piatti di carne. Sembra di assistere a una capitolazione di lei, vittima sacrificale nel nome di una gravidanza e di un figlio sano.

Ma ecco un nuovo ribaltamento dei ruoli e l'ennesimo punto di crisi: lei rientra in scena dopo il parto, camminando con movenze animalesche quasi fosse un cane/lupo, reggendo fra i denti una enorme bistecca cruda. O forse un piccolo cucciolo. O un neonato. Arriva davanti a lui e agli spettatori e lascia cadere il neonato/bistecca davanti ai suoi/nostri piedi. “Ecco nostro figlio, ecco il nostro filetto.” E ora un rivolo di sangue invisibile pare scendere dalla bocca di lei, quasi ad accusare silenziosamente lui, il maschio della coppia, per questa ennesima sopraffazione.

Come ripete spesso lui durante lo spettacolo: “ La morte fa quello che vuole, quando vuole e come vuole.” Allora forse il rifiuto della carne per alimentarsi, la gravidanza sentita come imposizione, non sono altro che segni di una paura di lei per la morte, una chiusura totale verso il ciclo biologico naturale di ciascuno di noi. 


A questo punto negli spettatori, dopo il tourbillon di accuse, insulti, prese in giro, vorticosi ordini di carne, nasce un dubbio. Il tema dello spettacolo è davvero quello se essere vegetariani o carnivori? Ci si avvia all’uscita, dopo aver anche riso e applaudito, con meno certezze e più dubbi di quando si era entrati nella sala Gassman del Teatro dell’Orologio.










domenica 10 aprile 2016

TEATRO VERSUS FEDE b) “ Yesus Christo Vogue ” o dell’essere umano privato della morte e del divino.







Avevo molte aspettative quando ho scelto di vedere lo spettacolo della compagnia Vuccirìa Teatro, al suo debutto nazionale nella Sala Orfeo del Teatro dell’Orologio, poiché avevo letto articoli lusinghieri sui loro precedenti spettacoli. Non ho quindi altri termini di paragone personali su questa giovane compagnia teatrale palermitana. La coincidenza della rappresentazione nella settimana precedente la Pasqua ha accresciuto la mia curiosità (Teatro versus Fede, una nuova opportunità di verifica drammaturgica). 

Prima di poter entrare nella Sala Orfeo, la più grande del Teatro, con gli altri spettatori mi sono dovuta soffermare nel corridoio antistante, a guardare immagini che scorrevano su due piccoli schermi appesi al muro. Corpi dilaniati da bombe, culturisti che si esibivano su un palco, e altri orrori. Non mi vergogno ad ammettere che all’ennesima immagine di cadaveri “esplosi”, ho abbassato lo sguardo. 

Dopo essere entrata in sala e aver preso posto, ho trovato ad accoglierci Joele Anastasi, attore, autore del testo drammaturgico e regista dello spettacolo. Vestito (o svestito) come Cristo in croce, corona di spine compresa, il corpo e il volto coperto di fango, appollaiato su una sporgenza nel muro a sinistra della sala. Con noncuranza apparente verso gli spettatori, Il Yesus Christo dei Vuccirìa ripeteva un mantra: “predisposto all’infelicità incapace di suicidio”. E fra una ripetizione e l’altra inghiottiva con il vino capsule, probabilmente sonniferi. Poi è sceso dal gradino e, camminando nel corridoio centrale della sala, è salito sul palcoscenico per finire dietro il fondale, sparendo alla nostra vista.

Ecco così ad attirare la nostra attenzione gli altri due attori Enrico Sortino, anche aiuto regista, e Federica Carruba Toscano. La loro recitazione molto intensa è stata inframmezzata dal riapparire del Christo, dietro una tenda/garza nera sul fondo, che enunciava proclami messianici in modo stentoreo. In alternanza ai proclami venivano proiettati sulla tenda passaggi del Nuovo e Vecchio Testamento, il più delle volte impossibili da leggere perché impallati dai due attori in scena. Enrico Sortino e Federica Carruba Toscano, novelli Adamo ed Eva post-Apocalisse, hanno declamato con rabbiosa disperazione la scomparsa di amore, futuro e morte, affrontandosi, avvinghiandosi e spruzzandosi con l’acqua delle pozze per tutto il tempo. Anche loro sporchi di fango, vestiti con costumi fra il peplo e il gladiatorio, hanno addentato più volte e si sono contesi con ferocia dei corvi. 

La mia perplessità si è intensificata con lo scorrere dello spettacolo: la totale assenza di speranze e di orizzonti è stata l’unica chiave interpretativa che ho saputo trovare, anche riflettendoci dopo giorni. Poco giustificate le pozzanghere con acqua, dal fondo ricoperto di materiale riflettente simile a carta stagnola, incastonate nella croce utilizzata dai due attori come camminamento. Ancora meno plausibili le balle di fieno gettate qua e là, a fianco della croce e sotto il palcoscenico. Tutto molto simile al presepio che allestivamo a casa mia quando ero ragazzina. Era poi necessario alla drammaturgia il microfono auricolare fissato al viso di Joele Anastasi con un cerotto molto visibile sotto il nerofumo? E il microfono ad asta con cui enuncia dietro la tenda nera trasparente, è perché si tratta di un Yesù Vogue? Vorrei poter aggiungere qualcosa sul significante e sul significato del testo drammaturgico, dato che è stato definito da un critico “un’opera ambiziosa di concetto, di filosofia, di psicopatologia collettiva”, e la regia di Joele Anastasi “coraggiosa, impavida, tagliente, viscerale e coltissima”. Vorrei avere almeno compreso quale era il target di spettatori al quale lo spettacolo era diretto (quelli presenti al Teatro dell’Orologio erano forse ancora più sconcertati della sottoscritta). 

La mia impressione complessiva è che il testo sia stato scritto e messo in scena con grandi ambizioni, che non sono bastate però a renderlo fruibile e comprensibile, nemmeno al pubblico aperto alle sperimentazioni del Teatro dell’Orologio. Molti erano forse i messaggi impliciti che tali sono rimasti. La recitazione, fra lo ieratico e il rabbioso, pur dimostrando l’impegno profuso, non ha giovato. Mi ha convinto di più la prova attoriale di Enrico Sortino rispetto a quella di Federica Carruba Toscano, perennemente affannata come se fosse stata reduce da una corsa. Data la giovane età dei componenti la compagnia, li rimando a settembre, sperando di poterli ri-vedere con uno testo meno pretenzioso e una regia più attenta alla messinscena.




lunedì 4 aprile 2016

“ Gli occhi neri di Susan ” di Julia Heaberlin , ovvero quando un giallo ben scritto avvince e fa riflettere.





La prima cosa che mi ha colpito di questo libro è la copertina con il titolo. Ho pensato all’istante che fosse un omaggio al film American Beauty di Sam Mendes con Kevin Spacey (se non l’avete mai visto, il film, rimediate entro domani!). Una ragazza nuda, con margherite gialle al posto dei petali di rose rosse. Invece la motivazione è diversa: nel titolo e nella copertina c’è la storia della protagonista e insieme il modus operandi del serial killer che l’ha rapita. 

"Gli occhi neri di Susan" è, infatti, un giallo dove il colpevole è un serial killer che rapisce e uccide giovani ragazze. Ma se non amate descrizioni di violenze sessuali o simili, potete stare tranquilli, nel libro non ne troverete. Il romanzo si snoda a capitoli alternati con due protagoniste: Tessie, la ragazzina rapita nel 1995 che ci racconta la sua vita prima e dopo la terribile esperienza, e Tessa, che è diventata donna e oggi ha una figlia adolescente.

Ma chi è la Susan del titolo? Susan non esiste, o meglio, gli occhi neri di Susan (titolo originale Black-Eyed Susans: le Susan dagli occhi neri) altro non sono che il nome di un fiore giallo, simile al girasole, molto comune nel Texas. Perché tutta la vicenda è ambientata in quello Stato, dove Tessie/Tessa ha sempre vissuto e dove, in uno dei carceri di massima sicurezza di Huntsville (ricordate “Il miglio verde”?), è rinchiuso in attesa dell’esecuzione l’assassino seriale. 

Tessie è l’unica sopravvissuta fra le Susan dagli occhi neri, come le aveva definite la stampa, perché il maniaco le aveva abbandonate in un campo ricoperto di quei fiori. Ma se il colpevole è stato condannato ed è in carcere da anni, su cosa si regge la trama? Ancora sui fiori dall’occhio nero: chi continua a piantarli vicino alla casa di Tessa, un emulatore del serial killer o solo uno squilibrato? E se invece il vero colpevole fosse ancora libero, mentre un innocente sta per essere giustiziato a causa della testimonianza al processo di Tessie?

Julia Hearberlin, texana al suo terzo romanzo, è stata per anni anche giornalista. L’autrice sfiora nel romanzo tematiche non banali, come l’eticità della pena di morte come deterrente per il crimine; la statistica che ci mostra come negli Stati Uniti sono soprattutto neri poveri a essere condannati a morte; il lavoro di psicologi e avvocati quando sono i minori le vittime di un crimine. 

Ma, soprattutto, “Gli occhi neri di Susan” è lo svelarsi dell’educazione sentimentale di Tessie e dell’amicizia profonda che la lega all’eccentrica coetanea Lydia, l’amica del cuore che l’aiuterà dopo il ritrovamento e durante il processo. Ma se Lydia è una vera amica, perché dopo il processo se ne è andata via con la sua famiglia senza nemmeno salutare Tessie? E quanto peso hanno avuto il bizzarro nonno di Tessie e Lydia nel costruire l’immaginario adolescenziale di Tessie, popolato di fiabe politicamente scorrette e di racconti gotici alla E.A. Poe? 

Davvero un bellissimo romanzo, che non smette per una pagina di essere thriller dal ritmo elevato, con una scrittura fluida e realistica, ricca di introspezione su tutti i personaggi (complimenti alle traduttrici Marianna Cozzi e Angela Ricci). Lo leggerete tutto d’un fiato, sarete sorpresi dai colpi di scena e, quando penserete di aver trovato il bandolo della matassa, resterete a bocca aperta... ma non certo per la delusione! Lo consiglio a tutti gli amanti dei gialli costruiti a regola d’arte e, in particolare, a chi ama i legal thriller su carta, nei film e in Tv.


Il libro è uscito nello scorso mese di marzo per la Newton Compton Editori ed è disponibile sia in ebook sia in cartaceo  vedi qui


giovedì 31 marzo 2016

TEATRO VERSUS FEDE a) “ Lourdes ” ovvero la conversione come miracolo drammaturgico.





Nel periodo pasquale mi è capitato di riflettere su due spettacoli che più diversi non si può, entrambi rappresentati e visti al Teatro dell'Orologio. L'unico aspetto che li avvicina è il rapporto con il Divino o, se preferite, con il Sacro. A dire la verità volevo creare una specie di ring pugilistico, dove fare "combattere" virtualmente i due spettacoli, ma ho avuto paura che qualche critico teatrale vero e serio, come pure qualcuno delle persone coinvolte nei due spettacoli, venisse a cercarmi per....prendermi a male parole. 

In fondo sono solo una spettatrice curiosa e attenta, come alcuni di voi che leggete. E quelli che leggono soltanto, sarebbe ora che cominciassero ad andare a teatro, perché non è che sono qui a scrivere tanto per farvi passare il tempo. Ora basta con il preambolo, leggetevi cosa ha suscitato in me il primo spettacolo. Il secondo? Intanto meditate su questo....


La pièce teatrale "Lourdes" è un adattamento del regista Luca Ricci dall'omonimo romanzo d'esordio di Rosa Matteucci; è lo spettacolo vincitore de "I teatri del sacro 2015". Una donna, Maria Angulema, Andrea Cosentino, è in mutande, su un rialzo sopra il palcoscenico; c’è una  sedia e sullo schienale sono appesi alcuni indumenti. Maria li usa per vestirsi come dama della carità. Deve accompagnare a Lourdes, in pullman, un gruppo di malati e anziani di Orvieto. 

Lo spazio scenico è diviso in due: una parte sopraelevata dove Andrea Cosentino/Maria Angulema narra in un flusso inarrestabile, con un verace accento umbro, la sua esperienza come dama di carità, il suo incontro con le persone del gruppo e il pellegrinaggio a Lourdes. Sotto il sopralzo Danila Massimi,  con voce e strumenti dal vivo, sembra richiamare Maria e gli spettatori a un “altrove”, che non è né narrato né rappresentato, ma irrompe a tratti nel racconto. Il monologo di Maria tratteggia i vari personaggi in modo comico, sarcastico, sfiorando a volte il cinismo: è grazie a questo sguardo disincantato che scopriamo l’umanità varia di chi partecipa a un pellegrinaggio a Lourdes.

Ma c’è una dimensione altra, appunto, che è quella del divino, o meglio della ricerca di un Dio che deve dare una risposta a tutti quelli che vanno alla Grotta: perché sono al mondo? Perché soffro? Perché, nel caso di Maria, mio padre è morto? Danila Massimi, con voce e suoni mistici, a volte quasi arcaici, pare ricordare alla protagonista che esiste un “senso” del suo pellegrinaggio e del suo dolore, così come esiste un senso per il dolore di tutti gli altri.

Nello spettacolo c’è una desacralizzazione apparente del luogo narrato e anche dei simboli sacri: quando Danila canta o suona, Andrea/Maria interrompe il racconto e beve da una Madonnina di plastica, una di quelle che i pellegrini usano per riempirla di acqua santa. Pare quasi che tutto il narrare di Maria sia teso a cancellare negli spettatori l’idea dell’esistenza di Dio.

Tutto il cinismo di cui la narrazione è pervasa provoca negli spettatori dapprima una risata, e poi un sentimento di empatia per Maria e per chi sta accompagnando. Un cinismo che non è altro che uno scudo, con il quale Maria vuole proteggersi dal dolore per una morte, quella del padre, che reputa insensata.

E’ all’interno delle piscine che tutte le difese di Maria cadono. Sana tra i malati, dubbiosa tra i credenti, ecco che davanti al mistero del sacro si compie in lei il vero miracolo: l’accettazione del dolore. E solo accettando il mistero del divino, il dolore e la vita stessa riacquistano significato.

Non so quanti tra gli spettatori del Teatro dell'Orologio siano mai stati a Lourdes: io ci sono stata tre volte, circa 25 anni fa, da pellegrina e da guida di gruppo. Difficile non ridere di fronte alle miserie umane dei personaggi che Maria incontra, perché davvero sono caratteristiche rilevabili fra i partecipanti a quella drammaturgia fra il sacro e il profano che si svolge intorno alla Grotta di Massabielle.

Da credente, quale ero, ho provato a volte la stessa irritazione, ma anche la stessa pena, malcelata, di Maria verso persone che spesso non avevano mai visto altro che il proprio paese. Lourdes era quindi per loro un pellegrinaggio, ma anche un’occasione mondana, un viaggio in una realtà diversa dal quotidiano triste e greve. Anche io sono stata nelle piscine, con lo stesso scetticismo e paura che prova Maria. E alla fine mi sono immersa in un mistero che non si può narrare.


Questo è il punto dove avviene lo scarto nella narrazione di Maria e nello spettacolo, dove l’uomo non può più spiegare, ma si deve arrendere a un mistero superiore, che lo accoglie e lo consola. E la resa di Maria, simile a una conversione, è perfettamente plausibile seguendo tutta l’evoluzione del racconto.




giovedì 17 marzo 2016

" Sherlock Holmes e il mastino dei Baskerville " e di come un classico possa diventare moderno.





Lo spettacolo in scena al Teatro Stabile del Giallo è tratto da una delle opere più famose di Arthur Conan Doyle. La trama è nota: sir Charles Baskerville viene trovato morto. James Mortimer, il suo medico personale, teme che responsabile della morte sia un'orribile creatura, un mastino enorme che si aggira nella brughiera. La leggenda narra infatti che gli eredi della famiglia Baskerville siano oggetto di una maledizione, che li destina a una morte violenta. Per proteggere Henry, l'ultimo dei Baskerville tornato in Inghilterra per entrare in possesso dell'eredità dello zio Charles, il dottor Mortimer chiede aiuto a Sherlock Holmes.

L’inizio della pièce è fulminante nel suo dinamismo: il dualismo Sherlock Holmes/Watson è abilmente caratterizzato, segno di recenti suggestioni cinematografiche ben metabolizzate dalla regista Anna Masullo. Mentre Sherlock Holmes ragiona ad alta voce sugli effetti della cocaina, e ne dà una dimostrazione pratica piroettando a torso nudo sul palco, Watson lo aiuta a ragionare e a calmarsi. 

A questo punto entra in scena il dottor Mortimer, che inizia a leggere la lettera che spiega la leggenda del mastino dei Baskerville. Ho trovato molto suggestiva l’idea di narrare la leggenda attraverso un video, anziché farla raccontare, e questo artificio drammaturgico avvolge gli spettatori nell’atmosfera noir, quasi gotica del racconto. Altra scelta intensa e originale è il cambio scena successivo, quando Holmes, che rimane a Londra, resta solo sul palcoscenico e suona il violino: dietro di lui si intravedono le sagome dei quattro personaggi che incontreremo nella dimora dei Baskerville,  mentre seguono “fisicamente” la partitura musicale. 

La scenografia essenziale non cambia dalla casa londinese di Holmes alla dimora nella brughiera, salvo i quattro ritratti di altrettanti membri dei Baskerville, quadri che scendono dall’alto resi inquietanti dalla luce che ne illumina il volto. Notevole la scelta di utilizzare di nuovo la tenda/porta, dove si era visto scorrere il video della leggenda, per illuminare la scena con un camino, come per rendere in modo psichedelico la visione dell’incubo che sogna Watson. 

Il mastino non si vede mai, ma la sua presenza inquietante e quasi sovrannaturale è ben chiara a tutti gli spettatori: il suo ululato più volte terrorizza e pietrifica i presenti in sala. Da notare che fra gli spettatori, domenica scorsa, c’erano una cinquantina di ragazzini della adiacente scuola media, tutti attenti e con il fiato sospeso fino alla fine.

Non aggiungo altro, perché sempre di un giallo si tratta, se non che le musiche originali di Carlo Venezia sono azzeccate, bellissimi i costumi d’epoca di Francesca Mescolini. Complimenti soprattutto ad Anna Masullo, al suo esordio come regista: ha vivacizzato e modernizzato uno fra i testi più classici fra i classici del giallo. Bravi tutti gli attori, da parte mia ho particolarmente apprezzato Alessandro Parise, uno Sherlock Holmes energico e magnetico nelle capriole sul palco come nelle apparizioni a sorpresa, Mauro Racanati, un Watson misurato e in sintonia con il co-protagonista, e Andrea Ruggieri nel ruolo dell’elegante e scettico dottor Mortimer. 





giovedì 10 marzo 2016

" Dimmi il tuo segreto " di Lucy Whitehouse, ovvero conosci bene chi dorme al tuo fianco?






"Dimmi il tuo segreto" è il terzo giallo di Lucy Whitehouse, scrittrice che vive a New York ma è nata e cresciuta in Inghilterra. 

Nel titolo originale del libro "Before we met" (Prima che ci incontrassimo/prima del nostro incontro N.d.a.) è racchiuso il nucleo della storia. Hannah, la protagonista, è una ragazza inglese che vive a New York e lavora nel campo della pubblicità. A casa di amici conosce Mark, inglese anche lui, bello, ricco e imprenditore di successo pur essendo ancora giovane. In pochi mesi i due decidono di sposarsi e di tornare a vivere a Londra, dove ha sede la società di Mark.

Sappiamo tutti, però, che i principi azzurri esistono solo nelle favole. Un giorno Hannah va a prendere Mark, di ritorno da un viaggio di lavoro, all'aeroporto di Heathrow. Lui però non scende dall'aereo, e nemmeno da quello successivo, e non risulta raggiungibile al cellulare.

A questo punto prende le mosse un thriller che, sulle prime, si delinea come un giallo psicologico: Hannah è tormentata dai dubbi, si chiede se davvero conosce bene l'uomo che ama, che ha sposato da pochi mesi e per il quale ha abbandonato lavoro e carriera a New York. Da una parte Hannah non vuole fare la fine della madre, che ritiene responsabile della fine del matrimonio con il padre per la sua immotivata e patologica gelosia. Dall'altra la giovane comincia a investigare da sola, e scopre avvenimenti molto importanti e negativi nella vita passata di suo marito, sui quali lui ha mentito. 

Si arriva a un punto di svolta quando Mark finalmente riappare a Londra. Hannah lo costringe ad ammettere tutte le sue bugie. Ma.... niente è come sembra, e qui il giallo psicologico cambia ritmo e assume un tono quasi noir, avvolgendo la lettrice in un vortice di tensione e terrore davvero ben costruito. 

Non aggiungo altri particolari della storia,  perché sempre di un giallo si tratta. Due punti di forza di questo libro, oltre alla suspense in crescendo, sono, in primo luogo, la descrizione quasi minuziosa, ma per niente noiosa, di Londra, delle sue vie, stazioni della metro, parchi e palazzi. Per chi è innamorato della capitale inglese, come la sottoscritta, pare davvero di respirarne l'aria insieme alla protagonista. In secondo luogo l'analisi psicologica di Hannah, una giovane donna che vediamo maturare faticosamente e diventare sempre più sicura di sé pagina dopo pagina.


Il libro è uscito nel gennaio 2016 per la Newton Compton Editori ed è disponibile sia in cartaceo sia in ebook   vedi qui