Esterno
giorno. Milano. Settembre inoltrato.
La spider
procede a strappi, irrequieta, distratta. Ultimi lampi d’estate fendono a
tratti il Castello Sforzesco. D’improvviso l’auto si impenna, svolta a destra e
scalpita, poi a sinistra. Antonio ora è costretto a rientrare dall’altrove,
perso, svanito, in ritardo. Appuntamento sfumato, indirizzo sbagliato, città
ancora in vacanza, cuore senza locazione.
Rallenta,
accosta, approda al marciapiede. Antonio guarda oltre il finestrino abbassato,
la capote aperta, l’autunno non vuole arrivare, la camicia con le maniche
arrotolate. Un bar aperto, non può che essere aperto, è l’ora dell’aperitivo, per accogliere i mariti soli, tornati dal mare, le magliette
estive, senza giacca, stanchi di mostrare l’abbronzatura, la pelle avvizzita dal sole; le mogli ancora in vacanza con i bambini, e i mariti soli, per cena, alla trattoria vicino casa.
E’ quasi finito
il mese, vorrei infilare la giacca, mettermi la cravatta, chiudere la capote
perché piove, pensa Antonio. Invece scendo, maniche arrotolate, mi avvio
lentamente, mestamente, senza motivo, verso il bar degli uomini soli, per l’aperitivo. Dalla porta a
vetri di un negozio più avanti, una ragazza esce, assorta, sicura, la borsa scura, la tracolla appoggiata alla spalla, l'impermeabile, scarpe
basse, comode, da pioggia.
Che strano,
osserva Antonio, l’autunno per quella ragazza è già arrivato, cammina decisa,
ha progetti, impegni, acquisti da fare. E poi assomiglia a Lucia, se Lucia
fosse meno giovane, lontana, fuggita. Ma non può essere lei, pare dire una treccia nera,
lunga, lucida, mentre ondeggia sull’impermeabile.
E allora se non
può essere Lucia…..la rincorre, le passa avanti, la ferma per un braccio, perché le mani magre, pallide, sono strette attorno a un sacchetto bianco. La ragazza
guarda in volto Antonio, cosa vuole quest’uomo da me, non lo conosco, ho da
fare, devo andare. Poi vede gli occhi, ricorda, è sorpresa, quasi si scusa. Antonio le
stringe ancora il braccio, è l’ora dell’aperitivo, è settembre inoltrato, solo gli
uomini girano soli per Milano, non hanno nulla da fare, alla trattoria sotto casa è presto per cenare. Non può essere
Lucia. Per questo la invita a bere un aperitivo, se non ha tempo anche un caffè;
non è ancora troppo tardi per un caffè prima di cenare.
Ma lei ha un
appuntamento, prosegue per la sua strada, la mano di lui ancora stretta attorno
al gomito, lui dietro, insiste, persiste, perde la pazienza. Solo Lucia può
trattarlo così male. Intanto la treccia nera, lunga, lucida, si scuote ad ogni
passo, scandisce: non sono Lucia, ho fretta, devo andare, non ho tempo per un aperitivo, non ti conosco, Antonio.
L’aperitivo si
beve d’estate, le sere ancora chiare, gli abiti scollati, i sandali senza
calze, i capelli appena lavati, lasciati asciugare all'aria. Perché d’estate, a
Milano, l’aria è profumata, le mogli e i bambini non sono ancora tornati, magliette colorate, le auto rombanti lontane, i negozi dalle saracinesche
abbassate. E i sandali senza calze, i tacchi alti affondano nel marciapiede, l’asfalto
bollente, la voglia di immergersi in una coppa di gelato alla frutta, la panna
morbida, fredda, anestetizza la lingua.
Ma le
saracinesche abbassate, la cremeria chiusa, i tacchi affondano, il sudore
scivola lungo la schiena, gli abiti smanicati, i capelli oramai asciugati, per
fortuna c’è un tabacchino sempre aperto. Un tabacchino aperto anche ad agosto, dove vendono il cremino, il bastoncino
incollato alla carta, umida fra le dita, correndo verso l’ombra, le ascelle
bagnate, le gambe senza calze, abbronzate.
Questa è l’estate.
Tempo di gelato, di corse con i capelli bagnati, di mogli lontane, di gambe nude, abbronzate, di
storie sbagliate. Tempo di scherzi infantili, di giochi stupidi, di risate azzardate.
Ora la treccia
nera, lunga, lucida, della ragazza che non è Lucia, si ferma. Guardati attorno,
gli dice. Il tramonto sta per arrivare, tiepido, stanco, quasi a sussurrare: non
è più estate.
I lampioni si
accendono, l’asfalto si è raffreddato, l’aria sa di rimpianto, di ritorno, di
storie cancellate. A breve torneranno le mogli con i bambini, in auto chiuse staranno
i mariti, le camicie abbottonate, le giacche stirate. Sfileranno ancora i
grembiuli di scuola, frusceranno i fiocchi inamidati, i bidelli agli ingressi
parati, le saracinesche tutte alzate.
Ecco perché non
ti conosco, Antonio, devo andare, ho da fare. Anche per me è finito il tempo di giocare.
Ma Antonio non
sente, non vuole, non la lascia andare. Non è un grande sforzo, il tempo di un
caffè, un pomeriggio di settembre inoltrato, è ancora troppo presto per cenare. La
voce irrequieta si scalda, s’impenna, comincia
a gridare.
Se almeno fosse
Lucia, la potrebbe stringere, costringere, rimproverare. Nemmeno si accorge che
i mariti soli, silenziosi, lenti, escono dal bar dell’aperitivo per andare a
cenare.
E senza
pensarci, alza le mani, vorrebbe sciogliere la treccia nera, lunga, lucida,
vorrebbe baciare i capelli bagnati, le gambe nude, abbronzate, i vestiti
sbracciati. Vorrebbe sentire echeggiare i giochi stupidi, le risate azzardate,
vorrebbe indietro le storie sbagliate.
Gli occhi della
ragazza si accendono dalla paura, dalle dita scivolano via il sacchetto,
l’impegno, le cose da fare. E insieme rotolano sul marciapiede, l’asfalto raffreddato,
il lampione illuminato, un settembre inoltrato.
Antonio ha un
sussulto, si calma, preme le mani sull’impermeabile aperto, sente il ventre, rotondo, scruta il viso spaventato. Distoglie lo sguardo, ha pena,
vergogna, vorrebbe scappare. Vicino, per terra, il sacchetto finisce di
rotolare, una scarpetta piccina, timida, rosa, scivola fuori e si lascia guardare.