mercoledì 31 dicembre 2014

" Natale in casa Cupiello"... senza Eduardo.






Eccomi, buona ultima, con le mie impressioni sullo spettacolo diretto da Antonio Latella al Teatro Argentina. Nel frattempo sono uscite molte recensioni, alcune negative altre entusiastiche, ma io ancora aspettavo che la visione dello spettacolo si “sedimentasse” in me, per essere il più possibile obiettiva. L’altra sera ho casualmente rivisto in tv, per l’ennesima volta, lo spettacolo originale con Eduardo, Luca de Filippo, Pupella Maggio e Lina Sastri. A quel punto, non potevo più rinviare.

Prima di arrivare al Teatro Argentina ero a conoscenza che la versione di Latella sarebbe stata “rivoluzionaria”: mi era stato detto che il regista ama “provocare”. D’altro canto, non avendo mai visto uno spettacolo con la sua regia, ero nella condizione migliore per giudicare.

Primo atto: all’inizio lascia spiazzati la presentazione dei personaggi. Tutti in piedi, al limite del proscenio, vestiti di nero in varie fogge (anche due attori vestiti da donna), indossano una mascherina nera, di quelle che si utilizzano per dormire. Solo Luca (Francesco Manetti) ha una giacca bianca. Man mano che i personaggi iniziano a recitare, si levano la maschera. Fin qui la scelta del regista è quasi rigorosamente aderente al testo: gli attori declamano i dialoghi e anche le didascalie, mentre Luca pare scrivere nell’aria ogni singola parola con un’invisibile penna. Il pubblico è attento, incuriosito, chi sa le battute del testo a memoria aspetta di vedere se e quando gli attori si muoveranno sul palcoscenico. Alle loro spalle una enorme stella cometa luminosa: fin qui la magia di Eduardo è salva.

Secondo atto: cambio scena. La cometa scompare, una musica indiavolata, fra il Rocky Horror Picture Show e un concerto heavy metal invade e pervade il palcoscenico e gli attori, che si muovono come invasati, portandosi dietro enormi fantocci di animali, che rappresentano il pranzo di Natale, capponi, tacchini ecc, ma anche gli animali del presepio, cammello compreso. La spettatrice attenta si chiede: ma è lo stesso spettacolo di prima? Nel mezzo del sabba avanza Concetta (Monica Piseddu), la moglie di Luca, trascinando un carretto (questa immagine mi ha fatto subito pensare a Madre Coraggio di Brecht). Un carretto che in verità è una carrozza, o un cocchio funebre dorato, dalle pareti di vetro trasparente. Attorno al cocchio i vari personaggi si rincorrono, si confrontano, mentre Luca appare sempre più avulso dalla realtà che lo circonda e continua a scrivere le battute dei dialoghi all’interno delle pareti del cocchio. Alla fine Concetta rimane dentro il cocchio, sepolta sotto i fantocci animaleschi.

Terzo atto: nuovo cambiamento di scena e di registro (anzi, verrebbe da dire cambio di regista, data l’assoluta eterogeneità e mancanza di armonia fra i tre atti). Ad ogni modo, al centro della scena la mangiatoia del presepio, ma dentro non c’è il bambinello, bensì Lucariello, malato, incosciente, seminudo. Da un lato Concetta, con un abito a metà strada fra la dama del Seicento in lutto e la monaca. A sinistra, anche loro vestiti a lutto, i personaggi secondari (gli amici in visita) intonano una nenia funebre, forse un madrigale, mentre l’attore en travesti sembra il cantante dei Tazenda. L’angelo dell’annuncio scende dall’alto e altri non è che il portiere. Tommasino (Lino Musella) rimane assorto, seduto ai piedi della mangiatoia. Finalmente l’ultimo personaggio rimasto con la mascherina, fermo in un angolo del proscenio, si rivela: è il dottore, ovviamente. Reggendo un fantoccio a forma di scimmia ( non vedo, non parlo, non sento?) visita Lucariello, ma anziché recitare, canta le sue battute come in un minuetto. La spettatrice attenta comincia ad augurarsi la fine dello spettacolo, che si suppone imminente, perché in fondo al palcoscenico si apre il fondale, appaiono il bue e l’asinello (vivi, come si può capire dall’odore che arriva fino alla platea).

Ma ancora non è finita: mentre Concetta si sposta dietro la mangiatoia, come la Madonna della Pietà, Tommasino prende due secchi ripieni di foglie (d’alloro paiono alla spettatrice attenta), e con quelle foglie ricopre il padre, rimasto nudo nella mangiatoia. Da un altro secchio sparge della polvere accanto alla mangiatoia, che non è cenere ma mangime per attirare fino a lì il bue e l’asinello.

E mentre ci si aspetta che cali il sipario, ecco un altro colpo di scena/genio del regista: Tommasino prende un cuscino e soffoca il padre (che peraltro già era soffocato dalle foglie). Ma perché? Quale dovrebbe essere il significato simbolico di questo parricidio?

Applausi dalla maggioranza degli spettatori (gli attori sono in effetti tutti bravissimi), qualche fischio. La spettatrice attenta, ancora sconvolta dal parricidio, esce perplessa dall’Argentina. E’ lecito rivoluzionare un  testo ormai classico? Certo che sì, ma l’operazione deve avere un motivo di fondo, deve aggiungere altri significati (dove ce ne siano) e non cancellare quelli esistenti e ben conosciuti. Altrimenti rischia di evolversi in un esercizio anche divertente, ma fine a se stesso, un ennesimo "épater le bourgeois" del quale la spettatrice attenta non sentiva il bisogno. 

domenica 7 dicembre 2014

" Il Mercante di Venezia" .... orfano di Shylock.







Dopo aver portato in scena “Romeo e Giulietta” e “La tempesta”, Valerio Binasco con la sua compagnia “The Popular etc…” affronta un altro pezzo forte del Bardo “Il Mercante di Venezia”. Agli attori della compagnia questa volta si è aggiunto Silvio Orlando, proprio nel ruolo di Shylock.

Vi dico subito che tanto la rappresentazione  de “La Tempesta” la scorsa stagione, mi aveva positivamente stupito ed emozionato, tanto questa versione de “Il Mercante di Venezia” mi lascia soddisfatta a metà e con una serie di interrogativi. Il primo dei quali riguarda proprio la scelta di Silvio Orlando: un nome di richiamo per il cartellone del Teatro Argentina? (“La Tempesta” andò in scena al Teatro Vascello). O una scelta voluta per sottolineare l’estraneità dell’attore alla compagnia, così come Shylock era straniero a Venezia?
Complice la cadenza da Europa dell’Est con la quale  recita Silvio Orlando (ma non si capisce che lingua vorrebbe essere, non certo yiddish né polacco, forse rumeno, ma perché?), quello che ne risulta è lo straniamento totale del personaggio.

Gli attori della compagnia di Binasco sono anche stavolta brillanti e la commedia, a tratti, è anche molto divertente. La satira sui nobili ricchi (e meno ricchi) veneziani, colpisce invero il bersaglio. Bassanio è il giovane che vive al di sopra dei suoi pochi mezzi, grazie all’aiuto costante di Antonio che, da buon cattolico, presta i soldi a tutti senza chiedere interessi.
La figlia di Shylock detesta il padre, lo inganna e fugge con l’innamorato portandosi via tutti i gioielli, frutto dei prestiti ad usura del padre. Salvo poi tornare dopo pochi mesi a Venezia, avendo già scialacquato tutto il patrimonio rubato.
Porzia, la ricca patrizia di cui Bassanio è innamorato, pare sottomessa, suo malgrado, alle ultime volontà del padre morto, pronta a sposare il “povero ma bello”, se solo potesse. Seguendo l’autore, si riscatta travestendosi da uomo, per salvare Antonio dal pagare la penale del prestito a Shylock. E qui l’astuzia femminile sovrasta quella di Shylock, che così non può vendicarsi su Antonio e perde di fatto tutte le sue proprietà.

Fin qui non c’è nulla di discordante o innovativo rispetto al testo originale, ma, appunto, da Valerio Binasco era lecito aspettarsi altro. E’ vero che vediamo in Antonio e Bassanio non solo l’odio verso Shylock in quanto ebreo e usuraio, ma anche il rifiuto quasi xenofobo di tutti gli stranieri, ma questo aspetto forse meritava un approfondimento o maggiore enfasi.

E Silvio Orlando, nel celeberrimo monologo, non riesce a farci sentire “tutti uguali”, tutti esseri umani che soffrono nello stesso modo. Certo Silvio Orlando non è Al Pacino, ma durante lo spettacolo sembra che lui stesso sia poco convinto della parte affidatagli. O forse il regista non ha scelto bene l’attore protagonista, che infatti protagonista non diventa né durante il monologo né durante il processo ad Antonio. Troppo dimesso, quando chiede la libbra di carne di Antonio, per provocare disprezzo e orrore in noi. Troppo umiliato e vinto, quando perde tutte le sue ricchezze,  per farci provare compassione. Forse solo per un attimo lo spettatore prova empatia con lui: quanto lo si costringe a baciare il crocifisso.

Per il resto la colonna sonora è azzeccata, la scenografia, come sempre, ridotta all’essenziale ma efficace, i costumi sono ben scelti, dal pop anni 60 di Porzia e Nerissa (una sempre bravissima Merigliani)  fino all’eleganza misurata dei personaggi maschili. Solo Shylock rimane in scena, fin quasi alla fine,  con un impermeabile grigio, a marcare una diversità che non suscita, comunque, nello spettatore quella immedesimazione che Shakespeare avrebbe voluto.
Peccato. Con un’opera così attuale e piena di spunti di riflessione, Valerio Binasco avrebbe dovuto osare di più.


sabato 6 dicembre 2014

" Melbourne" un giallo... iraniano.



Film d'apertura alla Settimana Internazionale della Critica alla Mostra di Venezia, l'opera prima del regista iraniano Nima Javidi ha riscosso consensi e premi internazionali. In questi giorni è ancora in programmazione, anche a Roma e Milano purtroppo in poche sale, ma merita di essere visto.

Lontano dalle narrazioni "neorealistiche" iraniane, (le maglie della censura diventano sempre più strette...), "Melbourne" è piuttosto un giallo che mi ha ricordato l'atmosfera e la suspense di "Nodo alla gola", il capolavoro di Hitchcock.

La vicenda si dipana in un appartamento e nell'arco di una giornata: una giovane coppia di Teheran, Amir, interpretato da Payman Maadi, protagonista di "Una separazione", e Sara, impersonata da Negar Javaherian, ha deciso di trasferirsi a Melbourne. 
Fra mobili da consegnare al rigattiere, amici e parenti da salutare, oggetti da impacchettare, telefonate dall'Australia del collega di Amir, si insinua la presenza di un neonato. Il piccolo non è figlio della coppia, ma di vicini di casa che Amir e Sara a malapena conoscono: viene loro affidato dalla babysitter, che deve allontanarsi per un'emergenza.
Risucchiati dal caos dei preparativi, i due si dimenticano del neonato, che dorme placidamente sul loro letto matrimoniale. A un tratto Amir rompe maldestramente un vetro della porta della camera e si accorge che il neonato non si sveglia al rumore....

Da qui si scatena una ridda di accuse, scuse, sensi di colpa, tentativi di negare e nascondere l'accaduto, sia al padre del neonato, separatosi dalla moglie, sia alla babysitter, ritornata dopo ore. 
L'angoscia si fa sempre più insostenibile e lo spettatore si chiede, come nel film di Hitchock, quando "gli altri", parenti e amici della coppia, rigattiere e personaggi vari che entrano ed escono dall'appartamento, si accorgeranno di quanto è successo. E se e quando la giovane coppia avvertirà la polizia, dovendo così rinviare o rinunciare all'agognata partenza verso una vita nuova.

Una regia attenta, nonostante sia il primo lungometraggio dell'autore, e la straordinaria prova di entrambi gli attori protagonisti, fanno in modo che il film scuota la coscienza dello spettatore, indipendentemente da dove vive e in quali valori crede, E nella scena finale Amir e Sara, separatamente, sembrano chiederci: "Voi, al posto nostro, cosa avreste fatto?".