domenica 10 aprile 2016

TEATRO VERSUS FEDE b) “ Yesus Christo Vogue ” o dell’essere umano privato della morte e del divino.







Avevo molte aspettative quando ho scelto di vedere lo spettacolo della compagnia Vuccirìa Teatro, al suo debutto nazionale nella Sala Orfeo del Teatro dell’Orologio, poiché avevo letto articoli lusinghieri sui loro precedenti spettacoli. Non ho quindi altri termini di paragone personali su questa giovane compagnia teatrale palermitana. La coincidenza della rappresentazione nella settimana precedente la Pasqua ha accresciuto la mia curiosità (Teatro versus Fede, una nuova opportunità di verifica drammaturgica). 

Prima di poter entrare nella Sala Orfeo, la più grande del Teatro, con gli altri spettatori mi sono dovuta soffermare nel corridoio antistante, a guardare immagini che scorrevano su due piccoli schermi appesi al muro. Corpi dilaniati da bombe, culturisti che si esibivano su un palco, e altri orrori. Non mi vergogno ad ammettere che all’ennesima immagine di cadaveri “esplosi”, ho abbassato lo sguardo. 

Dopo essere entrata in sala e aver preso posto, ho trovato ad accoglierci Joele Anastasi, attore, autore del testo drammaturgico e regista dello spettacolo. Vestito (o svestito) come Cristo in croce, corona di spine compresa, il corpo e il volto coperto di fango, appollaiato su una sporgenza nel muro a sinistra della sala. Con noncuranza apparente verso gli spettatori, Il Yesus Christo dei Vuccirìa ripeteva un mantra: “predisposto all’infelicità incapace di suicidio”. E fra una ripetizione e l’altra inghiottiva con il vino capsule, probabilmente sonniferi. Poi è sceso dal gradino e, camminando nel corridoio centrale della sala, è salito sul palcoscenico per finire dietro il fondale, sparendo alla nostra vista.

Ecco così ad attirare la nostra attenzione gli altri due attori Enrico Sortino, anche aiuto regista, e Federica Carruba Toscano. La loro recitazione molto intensa è stata inframmezzata dal riapparire del Christo, dietro una tenda/garza nera sul fondo, che enunciava proclami messianici in modo stentoreo. In alternanza ai proclami venivano proiettati sulla tenda passaggi del Nuovo e Vecchio Testamento, il più delle volte impossibili da leggere perché impallati dai due attori in scena. Enrico Sortino e Federica Carruba Toscano, novelli Adamo ed Eva post-Apocalisse, hanno declamato con rabbiosa disperazione la scomparsa di amore, futuro e morte, affrontandosi, avvinghiandosi e spruzzandosi con l’acqua delle pozze per tutto il tempo. Anche loro sporchi di fango, vestiti con costumi fra il peplo e il gladiatorio, hanno addentato più volte e si sono contesi con ferocia dei corvi. 

La mia perplessità si è intensificata con lo scorrere dello spettacolo: la totale assenza di speranze e di orizzonti è stata l’unica chiave interpretativa che ho saputo trovare, anche riflettendoci dopo giorni. Poco giustificate le pozzanghere con acqua, dal fondo ricoperto di materiale riflettente simile a carta stagnola, incastonate nella croce utilizzata dai due attori come camminamento. Ancora meno plausibili le balle di fieno gettate qua e là, a fianco della croce e sotto il palcoscenico. Tutto molto simile al presepio che allestivamo a casa mia quando ero ragazzina. Era poi necessario alla drammaturgia il microfono auricolare fissato al viso di Joele Anastasi con un cerotto molto visibile sotto il nerofumo? E il microfono ad asta con cui enuncia dietro la tenda nera trasparente, è perché si tratta di un Yesù Vogue? Vorrei poter aggiungere qualcosa sul significante e sul significato del testo drammaturgico, dato che è stato definito da un critico “un’opera ambiziosa di concetto, di filosofia, di psicopatologia collettiva”, e la regia di Joele Anastasi “coraggiosa, impavida, tagliente, viscerale e coltissima”. Vorrei avere almeno compreso quale era il target di spettatori al quale lo spettacolo era diretto (quelli presenti al Teatro dell’Orologio erano forse ancora più sconcertati della sottoscritta). 

La mia impressione complessiva è che il testo sia stato scritto e messo in scena con grandi ambizioni, che non sono bastate però a renderlo fruibile e comprensibile, nemmeno al pubblico aperto alle sperimentazioni del Teatro dell’Orologio. Molti erano forse i messaggi impliciti che tali sono rimasti. La recitazione, fra lo ieratico e il rabbioso, pur dimostrando l’impegno profuso, non ha giovato. Mi ha convinto di più la prova attoriale di Enrico Sortino rispetto a quella di Federica Carruba Toscano, perennemente affannata come se fosse stata reduce da una corsa. Data la giovane età dei componenti la compagnia, li rimando a settembre, sperando di poterli ri-vedere con uno testo meno pretenzioso e una regia più attenta alla messinscena.




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